Crescono le aziende italiane che fanno shopping all’estero

-

La “via italiana” all’integrazione spiegata da Methodos, società di consulenza milanese con uffici in Francia e Germania che segue le imprese nei processi di change management. L’aspetto culturale e l’area “soft” sono fondamentali nel determinare il successo o il fallimento di queste operazioni. «La leva del cambiamento sono le persone»

Dall’Italia alla conquista delle imprese estere. I casi di Ferrero (che ha acquistato il business dolciario statunitense di Nestlé a inizio anno) e Lavazza (che ha annunciato per fine 2018 il closing per l’acquisto di Mars Drinks) sono solo i due esempi più recenti. Una ricerca della banca HSBC, realizzata dall’Università di Padova, ha evidenziato che oltre il 40% delle medie e grandi imprese italiane ha fatto un’acquisizione e che questa, nell’81% dei casi, è avvenuta all’estero. Ma i dati dell’Osservatorio Assochange, che monitora le trasformazioni organizzative, segnalano anche le difficoltà che si incontrano nel cambiamento: il 70% dei processi di integrazione falliscono.

«Questi numeri evidenziano due indirizzi interessanti per il mondo economico: il primo è la tendenza alla costruzione di grandi corporation in grado di creare realtà sempre più massicce e competitive. Il secondo è più una speranza che un robusto trend, ma ha un risvolto “sentimentale”: anche le multinazionali nate in Italia possono e vogliono essere della partita. Ma per preservare l’investimento fatto non basta mettere insieme conti economici, prodotti, impianti: occorre integrare le culture e formare una nuova organizzazione». È quanto sottolinea Daniele Cantore, Head of Cultural Change Management di Methodos, società di consulenza che segue le imprese proprio nei processi di change management.

Un’operazione di acquisizione o fusione, infatti, non si limita a riguardare solo gli aspetti economici, societari e industriali. Si tratta anche un incontro di cultura organizzativa, stile di leadership, mentalità e comportamenti delle persone. E non sempre il processo è indolore. «Sono proprio le persone il fattore chiave che determina,nella maggior parte dei casi, il successo o il fallimento dell’integrazione – spiega Daniele Cantore –. L’aspetto psicologico è fondamentale ed è bene cominciare a lavorare il prima possibile sulla cosiddetta “area soft”. Cruciale partire con il piede giusto, con un ascolto strutturato, una chiara identificazione delle culture organizzative e intervenendo da subito su alcune dinamiche, come quella “vincitori contro vinti”, o il diffondersi di sfiducia e sospetto. Tutti elementi che portano all’immobilismo e fanno deragliare il progetto».

Pur non essendoci una ricetta universale per il successo, le probabilità di far bene aumentano se si segue un metodo strutturato di change management che tenga conto di almeno cinque dimensioni fondamentali.

Ecco quali sono.

  • Vision. Cioè conoscere se stessi, la propria organizzazione, dove si vuole andare e qual è il senso del cambiamento. «Non è una questione meramente filosofica – spiega Cantore –. Le persone aderiscono (o meno) al cambiamento se è chiaro loro il senso di quello che stanno facendo. Al contrario, l’orientamento a eseguire semplicemente l’attività e il compito è un fattore molto limitante».
  • Comunicazione. Quella interna in molte aziende, non tanto come funzione quanto come processo, purtroppo, non sempre funziona come dovrebbe. «Comunicare costantemente, anche in modo parziale, è fondamentale per tenere le persone a bordo rispetto a quello che accade – sottolinea Cantore –. Al contrario, non comunicare, aspettare che tutto sia pronto per farlo, significa lasciare che qualcun altro comunichi al posto tuo». E far sì che il susseguirsi di voci alimenti un clima negativo.
  • Leadership. «È il modo d’essere e di presentarsi della catena manageriale – spiega Daniele Cantore –. Una listening leadership compatta e che incarni la volontà di cambiare è il più potente propellente per un cambiamento. Una catena della leadership disgregata e poco impegnata ne è invece il maggiore inibitore».
  • Engagement. Significa definire il ruolo delle persone nel processo di cambiamento. «Tutti in azienda devono sentire di poter contribuire alle nuove fasi di una storia organizzativa – sottolinea Cantore –. E quando le persone vogliono far accadere il cambiamento, sanno sprigionare un’energia straordinaria».
  • Misurazione.. Perché è utile avere una dashboard, i processi vanno monitorati. «Bisogna adottare un cruscotto coerente con la vision del cambiamento – spiega Cantore –. Inoltre, monitorare i risultati non è di per sé sufficiente; è fondamentale monitorare anche i processi chiave ad essi associati. Altrimenti si rischia di non conoscere il reale progresso del cambiamento».

Esiste, infine, una “via italiana” all’integrazione? «I luoghi comuni spesso forniscono spunti di riflessione interessanti – conclude Daniele Cantore –. Ogni programma di change management viene sempre adattato al contesto di riferimento e senz’altro si può dire che noi italiani siamo più bravi a essere flessibili e adattivi. D’altra parte, a volte ci manca il rigore necessario per arrivare in fondo a questi progetti». L’importante rimane sempre partire da basi solide: conoscere se stessi, l’altra realtà, stabilire perché ci si integra e che cosa si vuole diventare e, fattore determinate, rendere le persone di queste organizzazioni le protagoniste di queste sfide.