Gli investitori dovrebbero prepararsi ad un’escalation della guerra commerciale tra USA e Cina

CAS Team - Unigestion -

Poco più di un anno scrivevamo che la possibilità di una guerra commerciale rappresentava la principale fonte di incertezza per la seconda metà del 2018. Lo scenario odierno non è molto diverso.

Dopo l’ottimismo del primo trimestre, gli investitori hanno iniziato ad affrontare la realtà di un accordo commerciale USA-Cina non così vicino come alcuni tweet potevano far credere. Oggi l’impatto del precedente innalzamento dei dazi può essere misurato, dandoci un’idea migliore di cosa aspettarci da quest’ultimo round. Inoltre, Washington ha segnalato quale potrebbe essere il prossimo fronte di questa guerra, in cui determinate aziende tecnologiche e i loro prodotti vengono gettati nella mischia. Tuttavia, se guardiamo ai prezzi di mercato, ci sembra che gli investitori continuino ad aspettarsi una risoluzione, anche se forse non così positiva come in precedenza. Non tenere in considerazione scenari ribassisti ci fa sentire come se stessimo girando “a destra come un disco”.

Rivalutare l’impatto della guerra commerciale USA-Cina

Nelle ultime settimane sono riemerse le preoccupazioni per il commercio globale, spinte dalla Casa Bianca che ha fatto seguito alla minaccia di aumenti tariffari dal 10 al 25 per cento su 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi. Gli investitori sono stati cullati in una falsa compiacenza dai discorsi e dai tweet sui progressi degli incontri tra USA e Cina durante il primo trimestre di quest’anno e hanno avuto un brusco risveglio quando i colloqui sono precipitati e il tono si è spostato verso un’escalation. Ci sembra che l’impatto negativo diretto sulla crescita globale delle tariffe applicate sia piuttosto limitato, all’incirca nell’ordine dello 0,15-0,20% nei prossimi tre anni. È importante sottolineare che questa contrazione potrebbe però essere compensata dalla spesa fiscale negli Stati Uniti o in Cina. Mentre è improbabile che l’inflazione globale si sposti molto, gli Stati Uniti sono particolarmente esposti. Un recente studio del National Bureau of Economic Research (NBER) ha dimostrato che i dazi del 2018 sulle importazioni statunitensi sono stati completamente trasferiti ai consumatori finali sotto forma di prezzi più elevati. Un altro studio condotto da un team di economisti di Harvard, Chicago, del FMI e della Federal Reserve, utilizzando i dati sui prezzi del Bureau of Labor e le statistiche sulle importazioni dalla Cina, ha dimostrato un forte aumento dei prezzi delle merci – quasi uno a uno – colpite dai dazi al 10 o 25 per cento, mentre il prezzo alla frontiera è rimasto sostanzialmente invariato. Pertanto, gli importatori statunitensi (famiglie o imprese) hanno quasi interamente sostenuto il peso dell’aumento delle tariffe, mentre gli esportatori cinesi non hanno ancora ridotto i prezzi. I nuovi cicli tariffari entreranno in vigore essenzialmente il 1° giugno, e ci aspettiamo una dinamica simile, in cui i dazi hanno gli stessi effetti di una tassa sugli importatori statunitensi.

Gli Stati Uniti sono esposti attraverso più canali, non solo all’inflazione

Alcuni di questi prezzi all’importazione più elevati si trasmetteranno ai consumatori statunitensi come aumenti di prezzo dei prodotti finali, mentre altri saranno assorbiti dalle imprese importatrici attraverso margini di profitto inferiori. La spesa fiscale potrebbe contribuire a compensare la probabile contrazione della domanda (ad esempio, attraverso sussidi industriali o un altro ciclo di tagli fiscali finanziati dalle entrate tariffarie), ma è importante tenere presente le perdite secche, causate da trasferimenti tariffari nelle catene di approvvigionamento da un produttore cinese a un produttore meno efficiente. Queste perdite secche non vengono recuperate dal governo e quindi non possono essere utilizzate per finanziare la spesa fiscale. Lo studio NBER ha stabilito che le tariffe del 2018 costano in media 414 USD all’anno, 132 dei quali sono perdite seccge. Sulla base di questo lavoro, l’FMI ha stabilito che l’ulteriore 15% sui 200 miliardi di dollari di importazioni costerà alle famiglie statunitensi 831 dollari all’anno, 620 dei quali rappresentati da perdite secche. Ciò significherebbe che circa il 75% del reddito perso dalle famiglie sarà causato dall’ultima tornata che non andrà nelle casse dello Stato, ma darà piuttosto luogo ad una distruzione di welfare a causa delle inefficienze. Teniamo infine presente che il costo totale dei dazi per famiglia negli Stati Uniti salirebbe a 1.245 dollari, cioè al di sopra della riduzione fiscale media di 1.090 dollari di cui ha beneficiato il quintile medio dei percettori a partire dalla riforma fiscale del 2017, secondo il Tax Policy Center.

Ma questo è lo scenario conservativo, non quello negativo

Finora la nostra discussione si è concentrata su ciò che è stato attuato, ma guardando al futuro un’ulteriore escalation appare piuttosto preoccupante. Nel breve termine, il periodo di osservazione per la prossima ondata di tariffe – cioè dazi del 25% su quasi tutte le restanti importazioni cinesi, per un totale di circa 300 miliardi di dollari – termina il 24 giugno, poco prima della riunione del G20 del 28/29 giugno. Anche se questo round di negoziati potrebbe essere ritardato, vediamo una significativa possibilità che queste tariffe vengano applicate. La Casa Bianca ha anche chiarito che la guerra commerciale non riguarderà però solo i dazi. Trump ha ora incluso la riduzione delle esportazioni statunitensi di tecnologie sensibili a imprese cinesi chiave come Huawei, la limitazione degli input cinesi a sistemi di telecomunicazioni critici e l’esame degli investimenti cinesi nelle imprese statunitensi. Allo stesso tempo i cinesi potrebbero limitare le esportazioni dei principali fattori di produzione necessari alle imprese statunitensi, provocando un’ulteriore escalation. Naturalmente, è molto difficile dire dove tutto ciò potrebbe portare o quali potrebbero essere i costi, ma ci sembra improbabile che i dazi rappresentino la battaglia finale di questa guerra.

Eppure gli investitori continuano a guardare al lato positivo

L’anno scorso stimavamo che una significativa escalation della guerra commerciale avrebbe comportato una riduzione di circa il 9% del valore dell’azionario globale, soprattutto a causa di un incremento dei premi di rischio. Riteniamo che questo numero sia ancora l’approssimazione da cui partire oggi. Tuttavia, l’indice MSCI All Country World è in calo di poco più del 4% rispetto al suo recente picco dei primi di maggio, il ché suggerisce che il mercato vede ancora una significativa possibilità che si verifichi un accordo, non tenendo in considerazione che il confronto possa andare oltre l’imposizione di dazi. Noi non siamo dei sognatori e continuiamo a proteggerci da una vendita di azioni tramite opzioni.

La strategia

La nostra visione a medio termine rimane prudente e abbiniamo un leggero overweight dei titoli di Stato con un underweight degli asset emergenti. Stiamo inoltre integrando la nostra esposizione sull’equity con delle opzioni per proteggere il portafoglio in caso di calo del mercato azionario.