Brexit e Next Generation EU, il nuovo volto dell’Europa

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Analizziamo la trasformazione che sta interessando l’assetto politico del continente europeo. Tra Brexit e Next Generation EU, però, il percorso delle negoziazioni pare tutt’altro che lineare.

Brexit

Come succede nelle migliori famiglie, nel divorzio tra Unione Europea e Regno Unito si è passati alle vie legali, che nella fattispecie consistono nella procedura di infrazione che l’UE ha avviato nei confronti del Paese secessionista.

A distanza di oltre 4 anni dal referendum che aveva sancito la volontà del popolo britannico di lasciare il blocco, il tema caldo resta ancora quello irlandese: secondo il “Withdrawal Agreement” siglato tra le parti a gennaio, l’Irlanda del Nord dovrebbe infatti continuare a seguire le norme doganali dell’Unione Europea, restando parte del mercato unico sui beni. In questo modo, verrebbe scongiurata l’eventualità di confini fisici tra Irlanda del Nord (fuori dall’UE con Brexit) e Repubblica d’Irlanda (membro dell’UE).

Allo stesso tempo, però, diventerebbero necessari controlli sulle merci introdotte in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna (Inghilterra, Scozia e Galles) e si verrebbe a creare, quindi, un confine normativo e doganale nel Mare d’Irlanda, mal digerito dal Regno Unito che considera le condizioni prospettate un’eccessiva limitazione alla propria sovranità. Per tale ragione, il governo ha deciso di recedere di fatto dal Withdrawal Agreement, negando quanto previsto dal protocollo nord-irlandese, in un disegno di legge presentato in Parlamento a settembre e non ancora approvato, ma che rappresenta a tutti gli effetti una violazione del diritto internazionale.

Procede, quindi, il braccio di ferro che vede da un lato il governo britannico ricercare un accordo paritario sullo stile di quello che regola le relazioni dell’UE con il Canada e dall’altro le istituzioni europee che non cedono terreno e continuano ad affermare la dominanza della legislazione comunitaria, visto il maggior peso economico del blocco e la vicinanza fisica con il Regno Unito (che rende non replicabile lo schema messo in piedi con il Canada).

La speranza, al fine di evitare il “no deal”, è che si trovi un accordo, anche solamente parziale, prima del vertice del 15-16 ottobre. Per questo motivo, al di là della procedura di infrazione aperta a inizio ottobre, le negoziazioni vanno avanti a ritmo serrato e in un silenzio ufficiale che potrebbe lasciar intendere che si sia giunti a una prima bozza di accordo tra le parti. Il fatto che non si registrino accuse incrociate e che i colloqui avvengano direttamente tra Ursula von der Leyen e Boris Johnson segnala, infatti, la possibilità di una svolta imminente.

D’altro canto, se una fuoriuscita della Gran Bretagna senza accordo non sarebbe vantaggiosa per nessuno, le conseguenze più gravi sarebbero però proprio per il Regno Unito. Tra Brexit e COVID, il Paese si trova oggi in una situazione di fragilità economica (il PIL britannico si è contratto in misura maggiore rispetto a quello dell’eurozona) e isolato politicamente a livello internazionale, dopo le dispute con la Cina per il 5G e il mancato supporto statunitense dove la lobby irlandese è ancora estremamente forte. La sensazione, quindi, se si vuole impedire un nuovo scossone economico e un ulteriore indebolimento della valuta, è che prevalga infine un atteggiamento più moderato che possa portare a un’intesa parziale entro metà mese.

Next Generation EU

Un altro importante tavolo negoziale nel Vecchio Continente riguarda il massiccio piano di intervento fiscale, denominato Next Generation EU (NG-EU), concordato al vertice europeo di luglio.

Al momento, manca ancora l’accordo tripartito tra Parlamento, Consiglio e Commissione, che darebbe il via al processo di approvazione da parte dei Parlamenti nazionali (è richiesta l’unanimità) e quindi alla predisposizione dei singoli piani nazionali entro la scadenza di aprile 2021.

L’iter si conferma, quindi, lungo e non privo di insidie. In particolare, c’è da abbattere le reticenze dei cosiddetti Paesi “frugali” (Austria, Danimarca, Finlandia, Olanda e Svezia) e del gruppo di Visegràd (Polonia, Repubblica Cena, Slovacchia e Ungheria), i cui veti incrociati potrebbero complicare notevolmente i piani dell’UE.

I primi, guidati da Olanda e Finlandia, non gradiscono la condivisione del rischio senza alcuna forma di condizionalità stringente sull’utilizzo delle risorse erogate e hanno chiesto e ottenuto il rimborso di parte dei propri contributi al bilancio comunitario, in cambio dei trasferimenti netti che essi dovranno versare nell’ambito del programma NG-EU a vantaggio dei Paesi con minore spazio di manovra fiscale. Mentre la disputa diplomatica prosegue, con la Francia e la Commissione Europea che, prima delle negoziazioni di quest’estate sul Recovery Fund, avevano spinto per l’abolizione di qualsiasi forma di rimborso e i Paesi frugali che richiedono, invece, che a tali rimborsi venga applicato un deflatore del 2% per proteggerne il valore in termini reali, la possibilità di una loro integrale rimozione risulta allo stato attuale alquanto remota. Si tratta, infatti, della principale vittoria negoziale dei governi di questi Stati e una loro abolizione comporterebbe quindi un elevato costo politico interno.

Per quel che riguarda l’altro gruppo di Paesi, la problematica è legata alla volontà del Parlamento Europeo di inserire una condizionalità sullo Stato di diritto. La strategia è quella di minacciare minori trasferimenti tramite il NG-EU e fare pressione affinché Polonia e Ungheria arrestino il processo con cui stanno rendendo meno democratiche alcune istituzioni nazionali.

Lo scenario delineato fa aumentare il rischio che il piano per la ripresa possa naufragare, considerato che, perché vada a buon fine, è necessaria l’approvazione unanime da parte dei Parlamenti dei singoli Stati membri. Una fonte di alea sul futuro dell’Unione e sul suo primo passo verso la tanto agognata integrazione fiscale, che si aggiunge ad una serie di rischi più “operativi” legati alle modalità con cui le risorse erogate verrebbero utilizzate. Nello specifico, occorre verificare che i fondi vengano destinati ad investimenti aggiuntivi e non sostitutivi, ossia che non si sostituisca semplicemente il debito pubblico con i trasferimenti comunitari come fonte di finanziamento di investimenti già pianificati. Inoltre, sussiste il tema, sempre d’attualità in Italia, dell’utilizzo effettivo delle risorse, con il rischio che una loro cattiva allocazione porti a sprecare un’occasione più unica che rara di effettuare le necessarie riforme strutturali senza gravare sul bilancio dello Stato, già appesantito.

D’altronde, nell’ultima nota di aggiornamento del DEF, il rapporto debito/PIL è stato proiettato al 160%, effetto combinato di un deficit in crescita e di un PIL in netto calo a causa della pandemia di COVID-19. Molto della sostenibilità del debito italiano dipenderà proprio dall’approvazione finale del programma dell’UE: soprattutto nel breve termine, il mix di politiche fiscali comunitarie e politica monetaria espansiva dovrebbe far sì che il differenziale tra il costo di finanziamento implicito e il tasso di crescita del PIL nominale resti in territorio negativo, facilitando il servizio del debito pubblico. Nel medio-lungo termine, invece, sarà inevitabilmente necessario rilanciare la crescita affinché ciò avvenga.

Detto ciò, NG-EU rappresenta una innovazione epocale che, a nostro avviso, difficilmente rimarrà confinata alla gestione dell’emergenza COVID. Si tratta di un primo esercizio di Budget comunitario con trasferimenti impliciti tra Paesi (sia a fondo perduto che nei prestiti a tassi agevolati), e una prima forma di condivisione del rischio sulle emissioni di obbligazioni da parte della Commissione. L’Italia, da erogatore netto si troverà nella posizione di beneficiario netto, almeno per i prossimi anni. Nella peggiore delle ipotesi NG-EU configura un cordone sanitario sui BTP per qualche anno (ipotizziamo che lo spread del nostro titolo decennale con il Bund tedesco scenda ben al di sotto dei 100pb, se non vi saranno incidenti gravi di percorso); nella migliore, un’occasione storica per fare le riforme strutturali senza pagarne il prezzo finanziario e politico immediato che spesso dissuade i leader politici dall’intraprenderle.

Elezioni USA

A seguito del primo disastroso (specie per Trump) dibattito TV e della malattia (COVID) di Trump, i sondaggi,  le proiezioni elettorali e le scommesse, danno come scenario ampiamente favorito quello del “Blue Sweep”, ossia della vittoria dei democratici al Congresso e del contemporaneo insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca. Perché ciò si concretizzi, saranno nuovamente determinanti i cosiddetti “Swing States”, ossia Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e North Carolina,  che risultarono fatali a Hillary Clinton nel 2016.

L’affermazione di un’amministrazione democratica con una solida maggioranza comporterebbe diverse implicazioni. A livello economico sarebbe lecito attendersi una maggiore spesa fiscale volta a sostenere la ripresa economica e a creare nuovi posti di lavoro, accompagnate da politiche di redistribuzione della ricchezza attraverso un aumento dell’imposizione fiscale sui redditi individuali più elevati e sulle imprese. Una serie di misure che non solo rilancerebbe la crescita, ma finirebbe anche per generare inflazione (nel programma di Joe Biden viene specificato come i posti di lavoro che si intende creare saranno ben pagati e, quindi, in grado di produrre un effetto inflattivo). Gli altri punti del programma rilevanti per i mercati riguardano il settore farmaceutico, vista la volontà annunciata di controllare e regolamentare i prezzi dei farmaci, anche di quelli più innovativi. Cambierebbe, poi, sicuramente l’atteggiamento nei confronti delle questioni ambientali, attraverso maggiori investimenti in infrastrutture green ed energie pulite, nonché la retorica nel confronto internazionale sul tema commerciale: se verosimilmente non muterà la volontà di riportare le filiere produttive negli USA, la dialettica sarà infatti portata avanti con minori tensioni con i partner commerciali.

Una vittoria democratica rafforzerebbe il cambio di paradigma della politica economica a cui stiamo assistendo negli ultimi anni e che sta accelerando per effetto della pandemia. La politica fiscale sembra avviata ad abbandonare l’impegno a compensare le politiche espansive con successive misure restrittive (austerità, Patto di Stabilità e via dicendo) cui logicamente si associa la nozione di neutralità della politica fiscale (principio Ricardiano in base al quale si scontano le tasse future). Se è vero, infatti, che nel programma democratico è manifestata l’intenzione di aumentare le tasse per le imprese, è altrettanto chiaro che, per non ripetere l’errore che lo stesso Joe Biden compì nel 2009 durante la presidenza Obama, non ci sarà nessuna fretta a normalizzare la politica fiscale espansiva già avviata sotto l’amministrazione Trump. Si tratta di un ritorno alla teoria keynesiana, potenziato ulteriormente dalla cooperazione tra politica fiscale e monetaria derivante dall’abbandono da parte di quest’ultima della regola di Taylor, che vorrebbe rialzi dei tassi in seguito alla risalita dell’inflazione e in misura maggiore rispetto a tale risalita (per esempio, un balzo dell’inflazione dello 0,5% dovrebbe essere controllato tramite rialzi dei tassi dello 0,75%). Essendo i rischi di deflazione ritornati a prevalere su quelli di un’inflazione eccessiva, le banche centrali hanno assunto un atteggiamento estremamente tollerante nei confronti dell’inflazione, assumendo di fatto senza reticenze il ruolo di finanziatrici di ultima istanza di politiche fiscali espansive (inflattive). La Fed americana ha sancito questa novità con l’adozione dell’Average Inflation Targeting mentre nelle altre regioni del pianeta dove l’inflazione stenta a manifestarsi, come l’eurozona, si ventila di ufficializzare una maggiore ‘simmetria’ dell’obiettivo (mancato del 7% circa cumulativo nei 20 anni di ‘esercizio’ dell’EMU).

L’impatto sui mercati finanziari potrebbe portare a un’ulteriore espansione dei multipli azionari. Con i tassi reali stabili o addirittura in calo (i tassi nominali sono ancorati ai livelli attuali dalle banche centrali e la politica fiscale potrebbe far comparire un po’ di inflazione), per riportare i premi di rischio sui loro livelli medi servirebbe una nuova fase di risalita delle valutazioni azionarie, seppur i livelli attuali possano apparire già costosi. Per questo, certamente si dovrebbero dissipare i rischi immediati e percepire come permanente il nuovo mix di politiche economiche sopra descritto.

Il 2020 sarà sicuramente un anno da ricordare, segnato non solo da una delle più gravi epidemie nella storia dell’umanità, ma anche da una radicale trasformazione dell’assetto politico e istituzionale a livello globale. Dall’Europa agli Stati Uniti, il vento del cambiamento spira forte come poche volte in passato.