Bellezza, brutalità, arte: nove artiste emergenti che lasciano il segno a Milano

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“Mi interessa in particolare come nelle relazioni le persone si influiscono a vicenda, come in un certo senso una passa ad essere parte dell’altro” sento dire a Viola Morini mentre sistema dei lumini led sopra piccoli cubi appesi alla parete da sottilissimi fili. Il lavoro si intitola Love is a radical concept. Viola non sembra né in ansia né di fretta anche se mancano pochi minuti alle 18, orario indicato nell’invito per l’inaugurazione della mostra Brutal Tenderness negli uffici di golab agency a Brera.

Nove artiste, nate tra il 1997 e il 2000 testimoniano il loro tempo, la nostra contemporaneità, in un pomeriggio milanese pieno di aspettative che trapelano nelle storie dei loro account Instagram: “Today is the day”. Post abbelliti con cuori luccicanti, stelline e farfalle. In sottofondo Madonna intona “Last night I dreamt of San Pedro, Just like I’d never gone, I knew the song…” un brano uscito nel 1986. La musica e le parole di Madonna fungono da colonna sonora nell’opera video Whooshes di Elisa Diaferia, girato durante un viaggio a Venezia tra amiche, proprio tutte le artiste in mostra, durante l’inaugurazione della Biennale di Venezia in cui l’iconografia di un passato recente si manifesta attraverso una rielaborazione di simboli e tradizioni in una chiave che appartiene soltanto alla loro generazione.

Scansiono il qr quode e rovisto nel press kit su Google Drive fino a trovare il testo critico di Maria Chiara Valacchi, curatrice di Brutal. Leggo velocemente: Progetto di Studiolo, @golabagency, bla bla bla, e poi arrivo a un paragrafo che vorrei sottolineare se avesse un evidenziatore e il testo stampato in carta:

“Il loro è un lavoro basato sulla negoziazione. Uno scambio perenne tra il sé e la cultura

collettiva, alta e bassa dove le parole più utilizzate sono “intreccio”, “legame”, “rapporto”,“connessione”, “convivenza”, “mix” o “esperimento” e i loro IG-feed schizofreniche sequenze in cui opere d’arte appena realizzate sono unite a references estetiche in forma di meme, selfies sfocati, flyers in grafiche new dark-goth, recondite scene da film anni ’80 e ’90 e ancora inesauribili tempeste di stickers, glitter e icone fantasy fuse in atmosfere perennemente sweetly-ugly.”

Rileggo il paragrafo e con questa nuova chiave di lettura mi avvicino a un’altra sala. Un tavolo shabby chic è tappezzato di erba sintetica, verde sgargiante, su cui si adagiano piccoli cagnolini di terracotta dipinti ad olio (come quelli che potresti vedere nelle vie di Milano dentro una borsa Louis Vuitton). Si tratta dell’installazione di Ludovica Gugliotta intitolata Non ironicamente stanche.

Per qualche ragione penso a Gillo Dorfles e al suo saggio sull’antologia del Kitsch e poi ritorno al testo critico sul mio cellulare: “Ogni opera contiene qualcosa di disturbante, un ingrediente indecifrabile che ne corrompe la normale armonia, ma che la rende allo stesso tempo eccezionalmente magnetica.” Ed è proprio così, ogni opera sembra voler graffiare tutto ciò che nel nostro immaginario corrisponde a un ideale di “bello” e in quest’appropriazione ripropongono un nuovo modo di osservare il proprio mondo da un punto di vista critico e di volontà riformista.

Nella stessa sala riconosco i quadri di Francesca Vanoli che ho visto stamattina su internet. Si tratta della serie intitolata Chewing-gum. Piccoli quadri dipinti a olio di all’incirca 5 x 5 centimetri. Sento a una coppia parlare a lungo su queste opere e decido soffermarmi con maggiore attenzione su ogni quadro quando ascolto le parole “manga” e “pornografia”. Non so esattamente chi le ha dette e in quale contesto ma stranamente mi avviano verso un’altra prospettiva. Ora sì. Le scopro sconcertati.

Il pubblico inizia ad affluire più veloce dal solito, forse scappando dalla pioggia che si riversa su Milano. Il borbottio della voci riempie le stanze da chiacchiere tra spettatori e artiste difronte alle loro opere. Sono arrivata al corridoio dove scopro il lavoro di Rebecca Picci, Pugnale della separazione, in argilla e resina dipinta con bomboletta spray dove sembra trarre spunti dal fantasy e dal gaming per riproporle in una chiave del tutto diversa.

Allungo lo sguardo verso la fine del corridoio. Appeso in alto, subito dopo la fila che si è formata per prendere da bere, intravedo l’opera di Vittoria Toscana CIÓ CHE FACCIAMO

È SEGRETO, un disegno a gessetti su diverse tele unite fragilmente da spillette color oro.

Sento il tintinnare dei calici, i brindisi, le risate e anche qualche pianto nascosto. La fila dietro i camerieri, intenti a versare il prosecco, si allunga ma tutti aspettano pazienti mentre scambiano pareri sulla mostra: “Sono tutte giovanissime”, “Quel lavoro mi ha colpito”, “Grazie, io sono la più piccola. È la mia prima mostra.”

Con paso felpato cammino verso l’ultima sala che si affaccia al giardino di Palazzo Parigi. Anche il balcone è affollato: fumo e sigarette da rotolare con tabacco Pueblo. Distolgo lo sguardo e mi concentro sull’opera di Alice Pilusi intitolata Sorry I bit you when I was drunk, una torta di ceramica smaltata, nastro di raso e tulle su un tavolo ovale a specchio nero. Ricordo i lussuosi dolci in vetrina che scorro con lo sguardo ogni volta che camino su Via Montenapoleone. Le insegne dorate che recitano Marchesi preannunciano i centinaia di euro che devi pagare per una loro prelibatezza se vuoi celebrare come quelli che contano a Milano. Ma nell’opera di Pilusi ciò che poteva essere stucchevole viene completamente ribaltato.

Proprio di fronte, sul lato opposto della stanza si trova l’opera di Livia Bertacca intitolata Alice was cutting her hair but something went wrong. Un mobile in legno in cui è stato pirografato un racconto scritto dell’artista che in qualche modo intuisco intimo e indecifrabile e per questo motivo del tutto accattivante.

Fuggirei il più lontano possibile dichiara l’artista Eva Vallania nell’intitolare un disegno a pastello su carta di quasi tre metri di altezza per tre di larghezza che segue le sinuosità di un camino settecentesco spento da anni ma che forse loro, penso immersa nel borbottio che inizia a scemare, riusciranno a riaccendere.

 


 

Brutal Tenderness

Un progetto di Studiolo a cura di Maria Chiara Valacchi negli spazi di golab agency.
Artiste: Livia Bertacca, Elisa Diaferia, Ludovica Gugliotta, Viola Morini, Rebecca Picci, Alice Pilusi, Vittoria Toscana, Eva Vallania, Francesca Vanoli.
Fino al 20 settembre 2022 su appuntamento: press@golabagency.com
Via Fatebenefratelli 5, 20121, Milano