Un po’ di storia

redazione - redazione@lamiaprevidenza.it -

Dalla Cassa nazionale di previdenza del 1889, all’Inps e alle casse professionali. Ecco come è nato il sistema pensionistico italiano

La storia delle pensioni in Italia comincia il 19 luglio 1889, quando il Parlamento del Regno approva la legge che istituisce la Cassa nazionale di previdenza, per assicurare gli operai contro l’invalidità e la diminuzione di produttività dovuta alla vecchiaia.

L’assicurazione per i lavoratori non è però obbligatoria. E le società d’assicurazione alle quali si rivolgono i lavoratori sono private.

Il 4 aprile del 1912, su impulso del quarto ministero Giolitti, il Parlamento approvava la legge che istituisce l’Ina, Istituto nazionale delle assicurazioni e sancisce il monopolio di Stato sulle assicurazioni sulla vita.

Fallisce invece il progetto di rendere obbligatoria l’assicurazione sulla vecchiaia, in pratica un accantonamento di parte del salario per coprire le necessità del periodo cosiddetto “improduttivo” della vita.

Tale passo viene compiuto il 21 aprile 1919, con il Regio decreto che riordina il sistema delle assicurazioni e decide per l’obbligatorietà dell’accantonamento a favore della vecchiaia.

Tale sistema rimane immutato fino al 1933, quando nasce l’Infps, Istituto nazionale fascista di previdenza sociale, che prende il posto della Cassa nazionale di previdenza. Inizialmente solo i dipendenti pubblici sono obbligati ad iscriversi all’Infps; dal 4 ottobre 1935 lo saranno anche i privati.

In seguito l’Infps muta nome in Inps, a causa degli eventi storici.

L’equilibrio del sistema pensionistico basato sul sistema a capitalizzazione (in cui la pensione di ciascuno è funzione diretta dei contributi che lui stesso ha versato durante la vita lavorativa) e sulla determinazione di un premio medio generale è messo a dura prova dalle conseguenze della situazione economica. Le riserve accantonate negli anni risentono della perdita di potere d’acquisto della moneta e non riescono a garantire adeguati livelli pensionistici.

Si ricorre così all’intervento statale e all’aumento delle aliquote contributive,  dando origine ad un sistema a ripartizione, in cui i contributi versati dai lavoratori attivi vengono direttamente utilizzati per erogare le prestazioni ai soggetti in pensione. Una prima fase, caratterizzata dalla coesistenza di entrambi i sistemi (capitalizzazione e ripartizione), lascerà il posto negli anni successivi al ben noto sistema a ripartizione, in vita ancora oggi.

Gli anni 60 e i primi anni 70 sono ricchi anche di ulteriori novità per il sistema previdenziale italiano:
– i dipendenti pubblici si vedono concesso il beneficio della pensione d’anzianità, che sarà successivamente estesa ai lavoratori privati;
– una riforma assicura ai lavoratori una pensione pubblica pari all’80% dell’ultimo stipendio;
– le coperture vengono estese prima ai lavoratori autonomi, mediante una gestione specifica presso l’Inps, e successivamente ai liberi professionisti, mediante le casse professionali.

Nell’autunno del 1969 viene istituita la pensione sociale per i sessantacinquenni privi di reddito e si decide per l’adeguamento automatico delle pensioni al costo della vita.

Nel 1973, il Parlamento concede ai dipendenti pubblici di ottenere la pensione con un periodo minimo di lavoro pari a 20 anni (15 anni 6 mesi ed un giorno per le donne sposate). Si tratta delle famose “pensioni baby”.

Un sistema previdenziale “a ripartizione” riesce a trovare il suo equilibrio quando i contributi versati dai lavoratori attivi (entrate) sono superiori alle prestazioni erogate (uscite). Per molti anni il sistema è stato in equilibrio perché il numero dei lavoratori attivi è stato superiore a quello dei pensionati.

Oggi la tenuta del sistema è pregiudicata da fattori quali:
– l’invecchiamento della popolazione
– l’aumento della speranza di vita
– la diminuzione del tasso di natalità.

Vedremo nei prossimi articoli come si è rimediato a queste criticità.


Con la collaborazione di Irsa.