Mercati emergenti: il ciclo di sovraperformance continua

Marco Bonaviri -

Nel 2017 le azioni dei mercati emergenti sono in testa dei mercati azionari mondiali con una straordinaria performance del 31%.

In confronto, le azioni dei mercati sviluppati sono cresciute del 16% nello stesso periodo. Gli analisti concordano sul fatto che questo progresso eccezionale sia imputabile alla stabilizzazione della crescita cinese, alla debolezza del biglietto verde e dei tassi statunitensi, così come alla propensione verso gli attivi rischiosi. La domanda che oramai domina le discussioni di investimento è quale ulteriore potenziale di apprezzamento abbia questa classe di attivi.

La storia mostra che i cicli di performance relativa delle azioni emergenti rispetto alle azioni dei paesi sviluppati durano da 5 a 8 anni. Ad esempio, dal 2002 al 2010 i mercati emergenti hanno sovraperformato quelli sviluppati di quasi il 300%, nonostante un calo di oltre il 50% nel 2008 durante la crisi finanziaria globale. Dal 2011 al 2015 la tendenza relativa si è invertita, con i mercati emergenti che sottoperformavano di quasi il 70% quelli sviluppati. Riteniamo che a partire del 2016 sia incominciato un nuovo ciclo di sovraperformance, che ha visto le azioni emergenti accaparrarsi già più del 20% di sovraperformance relativa. La nostra ipotesi è che i mercati emergenti siano relativamente interessanti soprattutto per la crescita economica e la crescita degli utili societari. Dal 2011 al 2015, la stretta delle condizioni finanziarie nei mercati emergenti, il calo delle materie prime e delle valute emergenti hanno pesato sulla crescita degli utili, risultata negativa e inferiore a quella registrata nei paesi sviluppati. Il primo trimestre 2016 segna un punto di flesso ed il ritorno a una dinamica degli utili superiore, che dovrebbe persistere e sostenere il ciclo di sovraperformance borsistica.

Contesto macroeconomico globale
Il contesto macroeconomico globale continua a offrire terreno fertile ai mercati emergenti. Senza l’attuazione delle politiche reflazionistiche annunciate dal presidente Trump, i tassi statunitensi sono condannati a crescere solo di poco ed il dollaro USA a rimanere sotto pressione. L’inflazione all’interno delle economie emergenti si è assottigliata, consentendo alle banche centrali di mantenere una politica monetaria accomodante. Quanto alle valute emergenti, a parità di potere di acquisto rimangono mediamente sottovalutate rispetto al livello di equilibrio. Per questo motivo i paesi emergenti registrano ormai una crescita due volte superiore a quella dei paesi sviluppati, uno divario che secondo il FMI è destinato ad ampliarsi fino ad arrivare al 3,3% nel 2021.

L’economia cinese è cresciuta del 6,9% nel primo semestre del 2017, riducendo i timori di una rapida decelerazione al 5%. Il mercato immobiliare rimane sostenuto da tassi ipotecari bassi, nonostante il rialzo dei tassi interbancari. La futura transizione verso una nuova leadership politica conferma la nostra idea che l’economia dovrebbe continuare a crescere con un ritmo discreto a medio termine.

Il consensus prevede una crescita degli utili per azione (EPS) per i mercati emergenti del 20,6% nel 2017 e del 12,3% nel 2018, cifre di gran lunga superiori alle aspettative per i mercati sviluppati. Oltre al contesto macroeconomico favorevole, le imprese cominciano a rivedere un po’ di utili e dispongono di leve operative e finanziarie importanti che dovrebbero consentire loro di aumentare i margini a medio termine. In questo senso, riteniamo ancora plausibile una crescita superiore al 10% nel 2018, che sarà favorevole per i mercati emergenti. Queste attese presentano tuttavia un rischio di concentrazione significativo, basato per il 68% su quattro paesi asiatici (Cina, India, Corea, Taiwan) e su tre settori (tecnologia, finanziari, beni di consumo discrezionali).

Un altro argomento spesso citato a sostegno dell’interesse relativo delle azioni emergenti è quello della valutazione. Tuttavia, ci sembra che la stima non sia così agevole poiché la classe di attivi è cambiata in termini di composizione geografica e settoriale. Per esempio, il contributo agli utili delle imprese operanti nell’ambito delle materie prime è passato dal 44% del 2003 al 15% di oggi. L’andamento dei multipli deriva quindi in parte dalle modifiche dell’indice e falsa i confronti storici. Su un orizzonte temporale più breve, dai minimi osservati nel terzo trimestre 2011, la valutazione strutturalmente inferiore dei mercati emergenti rispetto a quelli sviluppati è cresciuta dell’8%. La valorizzazione delle azioni emergenti è sicuramente in aumento dal 2016, con il rapporto prezzo/utili anticipato che è passato da 11,2x a 12,7x, ma rimane comunque relativamente interessante.

Rimane il posizionamento
Nel 2015 le azioni emergenti hanno registrato deflussi per 64 miliardi di dollari statunitensi, un quasi equilibrio nel 2016 e afflussi per circa 62 miliardi di dollari statunitensi nel 2017. Nonostante questo riflusso importante, gli afflussi dal 2016 rappresentano appena più della metà dei deflussi registrati dal 2013. Inoltre, i gestori di portafoglio rimangono globalmente sottoponderati della metà sulla classe di attivi. Il momentum economico e la dinamica degli utili dovrebbero continuare ad attrarre numerosi investitori sotto-investiti su questo mercato e sostenere la tendenza rialzista.

Che ne è dell’implementazione di un’opinione di investimento positiva sui mercati emergenti? La maggior parte degli investitori costruisce la propria esposizione alle azioni emergenti sulla base di un veicolo di investimento, fondi o ETF, seguendo o replicando l’indice di riferimento della classe di attivi, ossia l’indice MSCI Emerging Markets (MSCI EM). A questo proposito è importante sottolineare i difetti strutturali di questo indice e in particolar modo la sua concentrazione geografica e settoriale, che contrasta con la diversità potenziale dell’universo emergente. L’indice è concentrato per il 65% su quattro paesi asiatici: Cina 30%, Corea 15%, Taiwan 11%, India 9%. A livello settoriale, la concentrazione è addirittura più accentuata con un 28% di tecnologia, un 23% di finanziari e un 10% di beni di consumo discrezionali. Infine, il 16% dell’indice è concentrato su quattro società tecnologiche: Tencent, Samsung Electronics, Alibaba, Taiwan Semiconductor. Oltre a essere scarsamente diversificato, l’indice MSCI EM è composto per il 27% da società statali (State Owned Entreprises), meno redditizie e gestite peggio, che presentano un fattore di inefficienza maggiore. Crediamo che, per costruire un’esposizione diversificata ed efficiente ai mercati emergenti, sia nell’interesse dell’investitore scegliere un approccio diverso dall’indicizzazione passiva all’MSCI EM.

Benché le azioni dei paesi emergenti contribuiscano per quasi il 60% al PIL mondiale, esse rappresentano appena l’11% delle azioni mondiali. Da decenni gli investitori sono attratti dal premio di crescita dei mercati emergenti generato dall’aumento strutturale dei consumi interni, da una dinamica demografica favorevole e dall’evoluzione delle istituzioni politiche e sociali. Nonostante il fascino strutturale esercitato dalla gestione passiva, gli studi dimostrano che la stragrande maggioranza dei gestori attivi in azioni emergenti sovraperformano l’indice MSCI EM, a dimostrazione della generazione di alpha di questa classe di attivi. Oggi le possibilità che si aprono per gli investitori sono molteplici, tra cui l’allocazione per regioni o paesi, la strategia core-satelliti, la selezione di un gestore attivo svincolato dal diktat dell’indice o strumenti passivi indicizzati su un indice “intelligente” (Smart Beta).


Marco Bonaviri – Senior portfolio manager – Banca REYL & Cie