Quanto conteranno le Banche centrali nella fase di uscita dalla crisi?

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Con l’avvicinarsi della fine del lockdown nei principali Paesi occidentali, permane molta confusione circa la durata di una fase di transizione e sui rischi di una seconda ondata di contagi. In Occidente, soltanto la Germania è in grado di effettuare test su larga scala al fine di isolare le persone infette, mentre resta incerto se il numero di mascherine a disposizione sarà sufficiente a gestire questo periodo di transizione. I test sierologici sembrano al momento non sufficientemente affidabili. Per quanto riguarda l’immunità di gregge, secondo diversi studi (che si scontrano spesso con problemi di affidabilità), il numero di persone che avrebbero già contratto il virus, sarebbe troppo modesto per scongiurare un’eventuale ripartenza dell’epidemia, tenendo ben presente che la nozione stessa di immunità in una persona che ha già contratto il coronavirus, non è ancora stata dimostrata scientificamente. Sono stati intrapresi sforzi senza precedenti per trovare una cura, ma per ora non ci sono soluzioni per ridurre la pericolosità del virus e bisognerà probabilmente attendere almeno dodici mesi, nella migliore delle ipotesi, prima dello sviluppo di un vaccino. In altre parole entriamo quindi in un periodo definito di “distanziamento sociale”, che riteniamo possa durare ancora qualche mese, senza alcun orizzonte certo e che penalizzerà senza dubbio il tasso di crescita economica.

Le incertezze post crisi a medio termine

Alcuni fattori suggeriscono che il prossimo ciclo dovrebbe essere più incerto dei precedenti.

Zombificazione vs nuovi attori: A differenza delle normali recessioni, nel corso delle quali le aziende riducono l’indebitamento e ripristinano i margini (il ciclo si riavvia ogni volta con aziende che hanno liquidato i debiti, il che offre diverse opportunità), le imprese che attraverseranno questa crisi ne usciranno più indebitate e probabilmente con margini in peggioramento. Assisteremo a una distruzione di capitale, il che significa che potranno emergere nuovi attori, generando una nuova dinamica. Tuttavia, in generale non vi sono dubbi che per ogni impresa “zombie” che scomparirà lasciando il posto ad un’altra più produttiva, diverse imprese che non erano “zombie” lo diventeranno, in ragione di politiche economiche aventi come obiettivo la minimizzazione dei fallimenti con conseguenza tra l’altro quella di mantenere in attività aziende che “zombie” già sono.

Riduzione del peso dei deficit pubblici: Bisognerà inoltre ridurre i deficit pubblici che si annunciano senza precedenti per molti Paesi. Farlo troppo presto comprometterebbe il ciclo di ripresa e sarebbe controproducente, ma farlo troppo tardi sarebbe estremamente pericoloso dato il peso già molto elevato del debito pubblico. Questa questione genererà sicuramente incertezza, sia sul piano economico che su quello politico e istituzionale. All’interno dell’eurozona, le informazioni disponibili lasciano pensare che la Germania uscirà meno penalizzata da questa crisi rispetto agli altri Stati membri, aumentando così ulteriormente il divario delle performance economiche tra i Paesi. L’Italia, la Francia e la Spagna ne usciranno invece indebolite, con deficit pubblici molto elevati. Bisognerà assicurarsi che, quando ci dovrà nuovamente uniformare alle regole europee sui criteri di convergenza riguardanti il disavanzo pubblico, venga trovato un accordo politico ed economico soddisfacente.

Scelte di asset allocation:

Il livello d’incertezza spinge a un minimo di prudenza. Dopo il rimbalzo dei mercati registrato durante le prime settimane di aprile, grazie a valutazioni un po’ più nella norma e anche abbastanza elevate sul fronte delle azioni americane, abbiamo ridotto le esposizioni alle azioni europee con l’avvicinarsi della riunione dell’Eurogruppo del 23 aprile. Aspettiamo di sapere quanto sarà forte la risposta istituzionale di fronte a un’Europa economicamente e politicamente sempre più eterogenea. L’Italia si trova infatti in una posizione molto difficile e il suo panorama politico è fragile e frammentato. Apriamo una parentesi su una classe di attivi che merita di essere riconsiderata e sottolineiamo il comportamento positivo delle obbligazioni convertibili in questa crisi: hanno perfettamente raggiunto la convessità necessaria sperata. Questa proprietà di convessità tanto ricercata aveva garantito a lungo il successo della classe di attivi tra gli investitori, anche se le obbligazioni convertibili hanno avuto tendenza ad eclissarsi in questi ultimi anni, probabilmente a causa del loro andamento deludente durante le crisi precedenti. In effetti, dato che le obbligazioni convertibili erano, in passato, più presenti in portafoglio, subivano, in caso di crisi, importanti disinvestimenti su un mercato relativamente limitato creando problemi di liquidità e una perdita di valore eccessiva, il che impediva alla classe di attivi di mantenere le sue promesse. Non è stato invece il caso a marzo, proprio perché c’erano meno titoli da vendere. Prevediamo che il disinteresse per questa asset class sia stato sufficientemente importante da spingerci a inserirla nuovamente in portafoglio.

In questo momento siamo pertanto leggermente sottopesati in azioni e intendiamo restare prudenti, dato che l’attualità cambia rapidamente e che la crisi in corso è senza precedenti. Non solo il virus che l’ha generata ma anche il senso di disorientamento rappresenta un elemento inedito: il crollo del PIL mai registrato prima, l’ampiezza degli incentivi per promuovere la ripresa, l’entità delle misure di stimolo monetario. Quando tutto avviene entro i limiti conosciuti è relativamente facile compiere parallelismi tra concetti che non sono esattamente paragonabili e stimarne gli impatti globali. Ma, viste le somme attualmente in gioco, la giustapposizione di queste forze straordinarie e contraddittorie ricorda che bisogna restare vigilanti, in quanto le conseguenze sono in gran parte sconosciute. A titolo di esempio, dal primo marzo il bilancio della Federal Reserve è salito di 2.410 miliardi di dollari, mentre era aumentato di 3.600 miliardi in sei anni in seguito alla grande crisi finanziaria e all’istituzione di quattro programmi di quantitative easing. In otto settimane pertanto, il bilancio della Fed ha registrato un incremento pari a due terzi del totale dell’importo della più grande e lunga operazione di stimolo monetario della storia! Appena un mese fa, anche il mercato dei titoli di Stato americani appariva fuori controllo. Il fatto che tutti questi problemi si siano risolti, porta a chiedersi attualmente, se la Fed non abbia ripreso, in qualche misura, il controllo di molti mercati.

L’indice NASDAQ 100 ad esempio subisce un calo pari solo all’1% da inizio anno, nonostante il crollo del 28% del 23 marzo… In linea generale, la data del 23 marzo è lungi dall’essere priva di significato. Corrisponde all’annuncio da parte della Fed di un quantitative easing illimitato, che prevede la possibilità inedita di acquistare obbligazioni corporate. Ricordiamo che il punto di minimo dei mercati, in seguito al crac del quarto trimestre 2018, corrisponde al giorno in cui il governatore della Fed ha annunciato una svolta della politica monetaria statunitense (il cui carattere restrittivo aveva avuto una grande responsabilità nel provocare il crac) e che il ritorno a un ampliamento del bilancio della Fed nel 2019 aveva favorito un’impennata di tutti gli attivi rischiosi durante l’intero anno… Stesse cause, stessi effetti? Assisteremo a una nuova bolla speculativa? È possibile, dato il netto incremento del bilancio della banca centrale e la forte volontà delle autorità di sostenere i mercati per evitare che la crisi economica si trasformi in crisi finanziaria. È proprio tenendo conto di questa possibilità che manteniamo un’esposizione quasi normale agli attivi rischiosi. Tuttavia sarebbe ingiustificato puntare troppo su tale argomentazione di carattere monetario. Se esiste un legame tra il bilancio delle banche centrali e gli attivi finanziari, esso non è chiaramente percepito, anche dalle stesse banche centrali. Il ritorno alla normalità dei mercati potrebbe spingere la Fed a non forzare troppo una discrepanza tra il prezzo degli attivi e i fondamentali che potrebbe essere tanto benefica a breve termine quanto pericolosa a medio termine.