Certificazioni di responsabilità, welcome to the jungle

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Non esiste una definizione unica di “finanza sostenibile” e questo lascia ampio spazio all’interpretazione quando si parla di investimenti sostenibili.

Le strategie di investimento sostenibile possono essere basate su temi ambientali o sociali come il cambiamento climatico o il capitale umano, ma anche su esclusioni, best in class, best in progress o sul potenziale progresso futuro…

Gli investimenti sostenibili possono anche differire ampiamente in termini di obiettivi e di allocazione. Con i vari termini utilizzati – sostenibile, responsabile, ISR (Investimento socialmente responsabile), ESG (Environmental, Social, Governance), verde, clima, eco, transizione – la maggior parte degli investitori non è in grado di comprendere la crescente offerta di investimenti definibili responsabili.

Le certificazioni o “etichette” sono state create per rispondere a questa mancanza di chiarezza e per rendere i prodotti finanziari sostenibili più facili da comprendere, attestando la qualità del processo.

Un’etichetta, però, non può rendere più semplice ciò che è già frammentato. Inoltre, le certificazioni sono viste come uno strumento per influenzare gli standard, i regolamenti e potenzialmente il futuro ecolabel europeo. Per questo motivo, molti paesi dell’UE stanno ora accelerando per essere in prima linea sul tema e poter imporre la propria visione di investimento responsabile o verde e fissare lo standard.

In tutta Europa, è emerso che esistono non meno di nove certificazioni diverse e 800 fondi certificati in un universo totale di 60.000 fondi (al 31 dicembre 2019). Sebbene ciò rappresenti solo l’1% del mercato totale, il numero di fondi certificati è raddoppiato in un solo anno.

Delle nove certificazioni, cinque possono essere qualificate come ESG (Environmental, Social and Governance) e quattro come “Green”. Tuttavia, il confine tra le certificazioni ESG e Green è sfumato. Ad esempio, le etichette ESG includono la “E” di environment e quindi esaminano anche i criteri verdi, mentre le certificazioni “Green” richiedono un minimo di criteri/standard ESG. Tra i due tipi di certificazioni, si tratta di una questione di focus piuttosto che di una distinzione fondamentale nell’approccio, come illustrato di seguito.

Nella giungla delle etichette, la “certificazione ISR” francese e la belga “Towards Sustainability” sono in testa con circa 300 fondi ciascuno, che rappresentano quasi i tre quarti del numero totale di fondi certificati e il 90% del totale degli assets in gestione dei fondi certificati.

 


Elementi comuni e specificità

Per qualificarsi per una certificazione, vuol dire che il fondo si è impegnato ad escludere alcune attività o società che non sono in linea con gli obiettivi ambientali, sociali e di governance (ESG). In generale significa, ad esempio, che i combustibili fossili sono esclusi e che il processo di investimento e le partecipazioni in portafoglio sono trasparenti. Naturalmente, ci sono soglie, ambiti e requisiti di selezione ESG diversi.

Alcune certificazioni introducono ulteriori requisiti di disclosure, come la segnalazione degli indicatori di impatto. Alcune etichette hanno, inoltre, definito un sistema a punti con requisiti minimi e un incentivo a sviluppare quella che è considerata una best practice.

Le certificazioni “Green” impongono una quota minima di ricavi green, ma le soglie variano dal 10% al 37%.

Ogni certificazione è una combinazione unica di elementi comuni e specificità che spesso riflettono le preferenze e le opinioni nazionali in materia di investimenti responsabili. La diversità delle certificazioni esistenti ne complica l’uso nella distribuzione dei fondi d’investimento al di fuori del mercato nazionale e solleva molti interrogativi: quale certificazione, quante certificazioni, quali implicazioni in termini di costi… Vediamo sempre più spesso fondi con più certificazioni, alcuni ne hanno fino a tre, il che porta a una domanda di buon senso: come questo può influire sulla filosofia d’investimento del fondo?

Ha certamente senso puntare a una certificazione come attestazione della qualità intrinseca del fondo e scegliere l’etichetta che corrisponda alla filosofia del fondo e che aiuti a trasmettere il messaggio di sostenibilità. Ha senso anche quando diventa un must have riconosciuto per distribuire un fondo in diverse giurisdizioni. Una futura certificazione europea metterà fine alla recente proliferazione di certificazioni nazionali? Finora è in discussione solo una ecologica che si limiterebbe a sostituire quelle “Green”, ma non quelle ESG. La strada potrebbe essere lunga prima di concordare una certificazione europea ESG.

Per trasformare la giungla delle certificazioni in strumenti utili per gli investitori, cosa succederebbe se ci affidassimo al sistema a punti utilizzato da alcune di esse e definissimo dei requisiti minimi applicabili in tutta Europa, per poi assegnare ulteriori punti a criteri specifici che potrebbero variare da un paese all’altro?