Post-pandemia, l’Europa deve accelerare l’attuazione del piano di ripresa

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Circa un anno fa, il 18 maggio 2020, Angela Merkel ed Emmanuel Macron annunciavano una svolta storica per la costruzione dell’Europa. Dopo anni di tentennamenti su una serie di temi, dalla politica agricola alla politica estera, dal nucleare all’immigrazione, la coppia franco-tedesca si ricompattava, complice l’emergenza del coronavirus, su un’inedita iniziativa: sostenere direttamente i settori più promettenti per il futuro e i paesi europei in difficoltà finanziaria a partire da prestiti emessi dall’Unione europea. Tanto che all’epoca si parlò di “momento hamiltoniano” dell’Unione europea. Il piano di rilancio europeo da 500 miliardi di euro avrebbe inoltre dovuto essere completato da ulteriori 250 miliardi erogati sotto forma di prestiti.

Dopo interminabili negoziati – secondi solo per poche decine di minuti al record ancora imbattuto del vertice di Nizza nel 2000 sull’allargamento dell’Unione – con i cosiddetti paesi “frugali”, il piano da 750 miliardi complessivi veniva proposto a luglio 2020 con la seguente ripartizione: 390 miliardi sotto forma di sovvenzioni dirette – finanziate sempre da un prestito in comune – e 360 miliardi di prestiti. A fine aprile 2021, i primi Paesi membri hanno consegnato il proprio piano nazionale (diverse decine di migliaia di pagine), con la speranza che i fondi siano sbloccati “entro l’estate”, secondo il Ministro francese dell’Economia e delle Finanze, Bruno Le Maire.

Va sottolineato il confronto con gli Stati Uniti dove il Presidente, impropriamente definito “addormentato” dal suo predecessore, in 100 giorni ha adottato e realizzato decisioni di grande portata: piano di rilancio da 1.900 miliardi di dollari già votato, piano infrastrutturale da 2.300 miliardi e piano per le famiglie da 1.800 miliardi, senza dimenticare l’avvenuta vaccinazione di oltre il 40% della popolazione statunitense o le future riforme fiscali.

Tanto che le misure del presidente americano potrebbero concorrere alla soluzione di un problema europeo che si protrae da decenni ed è uno dei cavalli di battaglia della Francia: l’armonizzazione delle aliquote fiscali sulle imprese e la lotta contro la concorrenza fiscale. Instaurare un’aliquota minima di imposizione fiscale del 21% per le multinazionali americane, indipendentemente dall’area geografica in cui operano, renderebbe difficile il mantenimento di un’aliquota fiscale del 12,5% sulle imprese in Irlanda.

A prescindere dalle opinioni sul programma attuato da Joe Biden e le sue conseguenze, in particolare in termini di deficit e inflazione, è evidente che i suoi primi 100 giorni costituiscono una forma di riabilitazione della politica attraverso il rispetto delle promesse elettorali e la loro esecuzione in tempi rapidi.

Dopo un 2020 in cui l’economia statunitense è stata decisamente meno penalizzata dal Covid 19 rispetto a quella europea, anche la ripresa si preannuncia più tonica al di là dell’Atlantico. Il differenziale di crescita con l’Eurozona dopo la crisi finanziaria del 2008 segna ormai un impressionante +17% a favore degli USA.

Nella favola di La Fontaine, per vincere la gara bisogna partire in tempo ma per l’Europa non sarebbe, invece, semplicemente tempo di partire?