Dai combustibili fossili alle energie rinnovabili

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La decarbonizzazione, termine utilizzato per identificare il processo di rimozione o riduzione della produzione di anidride carbonica nell’economia di un paese, è un’importante tendenza strutturale d’investimento, destinata a proseguire. La sua importanza si deve al fatto che le emissioni di gas serra sono la causa del surriscaldamento globale, che sta avendo effetti insostenibili sul nostro ambiente. Molti paesi e aziende di tutto il mondo hanno risposto a questa sfida, impegnandosi a rimuovere tante emissioni quante quelle prodotte, ovvero a raggiungere il cosiddetto “zero netto”.

L’impresa è piuttosto ardua dal momento che praticamente tutte le attività umane emettono gas serra. Il raggiungimento dello zero netto non implica solo la chiusura delle centrali elettriche a carbone e il passaggio ai veicoli elettrici; la sfida è molto più ampia e abbraccia settori come i trasporti, l’agricoltura e la silvicoltura, ma anche le semplici scatole per le consegne di Amazon.

Il consumo di energia è strettamente correlato alla ricchezza e la domanda di energia è destinata ad aumentare con lo sviluppo delle nazioni emergenti. Le fonti solari ed eoliche rappresentano attualmente una piccola parte del mix complessivo, sebbene la competitività dei costi, le politiche di governo, l’innovazione e la professionalizzazione ne stiano incentivando la diffusione su ampia scala  e promuovano gli investimenti in queste tecnologie. Secondo i confronti fatti con le transazioni energetiche del passato, come il boom del petrolio negli anni ‘20 del novecento o del carbone negli anni del 1830, la fase delle rinnovabili è ancora agli inizi, ma i catalizzatori chiave sono già all’opera e la transizione resta un imperativo in termini di sopravvivenza.

 

 

L’elettrificazione è la strada verso lo zero netto

Raggiungere lo zero netto significa ridurre l’uso dei combustibili fossili e trovare energie rinnovabili per sostituirli. La strada più efficiente verso la decarbonizzazione è diffondere l’elettricità rinnovabile come principale fonte di alimentazione (sia via cavo che stoccata come idrogeno verde): è in questo ambito, infatti, che esistono già le tecnologie a basse emissioni di carbonio più mature.

L’idrogeno è una molecola che si può produrre con l’elettricità scindendo l’acqua, motivo per cui può essere considerato “verde” purché derivi da elettricità generata da fonti rinnovabili. Questa tecnologia è ancora agli albori e la capacità attuale di produrre idrogeno verde è molto limitata e poco commercializzata. Dal momento che non tutto può essere alimentato direttamente ad elettricità, l’opzione dell’idrogeno acquisirà sempre più rilevanza in futuro. Si pensi ad esempio alle realtà non collegabili alla rete, come le aziende di spedizione. Per questi settori serve un’alternativa ai combustibili fossili e l’idrogeno verde ha il potenziale per alimentarne i mezzi di trasporto in tutto il mondo.

L’elettricità è attualmente la fonte del 25% dell’energia globale, ma la quota dovrebbe salire fin quasi al 100%. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, la piena transizione dell’economia mondiale all’elettricità costerà circa 1.500-1.800 miliardi di dollari l’anno per 30 anni2 (pressoché il prodotto interno lordo dell’Australia). La cifra potrebbe essere sovrastimata per un paio di motivi. Innanzitutto esistono già alcune tecnologie abbastanza mature da supportare questa transizione. In secondo luogo, l’energia rinnovabile è sempre stata percepita come costosa e poco redditizia, ma questa visione sta rapidamente cambiando. La diffusione, l’innovazione e la professionalizzazione delle energie rinnovabili ne hanno ridotto i costi, tanto che alcuni dei nostri analisti prevedono una diminuzione dei costi dell’idrogeno verde di circa il 75% nel prossimo decennio3.

Il giusto equilibrio tra questioni sociali e ambientali nella transizione verso le energie rinnovabili

La transizione alle energie rinnovabili comporta qualche problema di distribuzione. Un esempio su tutti è lo scambio sul posto, in base al quale chi ha le risorse per installare dei pannelli solari sul tetto di casa può non pagare la quota di utilizzo della rete. Il problema: chi non può installare un impianto fotovoltaico domestico, in media le persone meno abbienti, finisce per sovvenzionare il costo di accesso alla rete dei più ricchi, che dispongono invece di pannelli solari propri. Questa redistribuzione regressiva deve necessariamente cambiare.

Anche le misure di riduzione del carbonio, come i sussidi per i veicoli elettrici, non sono del tutto eque, perché la maggior parte dei benefici va alle famiglie ad alto reddito.

Nel complesso, l’obiettivo sociale e ambientale della transizione energetica è strettamente connesso. Il singolo impatto maggiore dei cambiamenti climatici è di natura sociale: l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) stima che entro il 2050 ci saranno tra i 25 milioni e il miliardo di sfollati a causa dell’erosione delle coste, delle inondazioni costiere e delle perturbazioni in campo agricolo, provocate dai cambiamenti climatici. I più colpiti saranno ancora una volta i paesi poveri. Ecco perché i continui investimenti nelle tecnologie rinnovabili potrebbero verosimilmente limitare questo rischio sociale diffuso.

I potenziali beneficiari aziendali della transizione

Ampliare l’analisi dal semplice livello aziendale ai flussi di ricavi può fornire un quadro utile per stabilire in che modo le varie società affronteranno la transizione verso le rinnovabili. Molte aziende devono infatti bilanciare il calo degli utili basati sui combustibili fossili  e i crescenti investimenti nelle fonti rinnovabili. Il mercato sconterà la fine dei combustibili fossili molto prima dell’azzeramento dei ricavi, il che si rifletterà sulle valutazioni azionarie.

 

 

Raramente le società interessate da un calo strutturale degli utili rappresentano degli investimenti allettanti nel lungo termine. Le aziende devono quindi adottare un approccio lungimirante e focalizzarsi sulle attività operative più prospere. L’impatto della transizione energetica pone le aziende su un continuum: alcune realtà specializzate (c.d. “pure play”) non potranno che beneficiare delle energie rinnovabili, mentre altri operatori tradizionali faranno più fatica ad abbandonare e sostituire i combustibili fossili. Tutti i grandi sviluppatori di rinnovabili odierni, che ancora producono ogni anno svariati gigawatt5 di energia a base fossile, erano un tempo utility molto inquinanti, che tuttavia hanno iniziato a investire  nelle fonti rinnovabili più di dieci anni fa.

Un esempio è la danese Ørsted, il più grande sviluppatore di parchi eolici offshore al mondo, con una quota verde di calore ed elettricità del 90%6. Un tempo utility tradizionale con impianti alimentati soprattutto a petrolio e carbone, l’azienda si è reinventata nel corso di diversi decenni, affermandosi oggi come leader indiscusso nel campo delle energie rinnovabili. L’importante è che le aziende acquisiscano le competenze necessarie a sviluppare le rinnovabili. La curva di apprendimento è ripida e le realtà che riusciranno in questa transizione sono quelle in grado di adattarsi e adottare un approccio serio di disciplina del capitale.