I falsi miti dell’inflazione

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Le prospettive economiche stanno migliorando e i prezzi continuano ad aumentare. Sui mercati azionari globali cresce la paura dell’inflazione, ma è necessario superarla e approfondirne le cause. Cosa temono esattamente gli investitori? Per rispondere serve un’analisi economica e psicologica.

Prima di tutto, ci sono le strozzature dal lato dell’offerta e l’aumento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti intermedi. Un esempio ben noto è la carenza di semiconduttori, che rallenta la produzione di molti dispositivi elettronici di consumo e industriali. Il rincaro delle materie prime e dei trasporti fa lievitare i costi di produzione di quasi tutte le merci. Negli Stati Uniti, il prezzo del legname è quadruplicato rispetto al livello medio del 2019. Sui mercati mondiali, a maggio il rame e l’acciaio si pagavano rispettivamente il 75% e il 67% in più rispetto al 2019. Quanto ai container, i costi di trasporto sono saliti finora del 64%.

Gli aumenti dei costi si possono trasferire sui prezzi finali solo se i consumatori hanno abbastanza soldi da spendere – il che non dovrebbe essere un problema. Se si considerano Stati Uniti, Eurozona e Giappone insieme, lo scorso anno la massa monetaria è aumentata di un buon 20% in più rispetto al prodotto interno lordo nominale. I generosi acquisti di obbligazioni delle banche centrali hanno creato un enorme squilibrio monetario che offre un ampio margine di rialzo dei prezzi dei beni di consumo. È comunque improbabile che il rincaro delle materie prime sia una condizione sufficiente a spingere i produttori a sfruttare appieno i margini disponibili.

L’inflazione decolla davvero solo quando, dopo i prezzi delle materie prime,aumentano anche le retribuzioni. Al momento questa eventualità è piuttosto remota, sia in Europa che negli Stati Uniti. È pur vero che spesso le retribuzioni si muovono con un certo ritardo rispetto all’economia. Se la pandemia di coronavirus continuerà a rallentare e la congiuntura guadagnerà slancio nel corso dell’anno, gli aumenti salariali potrebbero rivelarsi un volano per l’inflazione dei prezzi al consumo anche il prossimo anno e in quelli a venire.

Per i mercati azionari un tale scenario sarebbe probabilmente sopportabile. Dopo tutto, gli utili aziendali non dovrebbero risentire di un rincaro delle materie prime e dei costi di manodopera se tali incrementi venissero trasferiti nei prezzi. Si avrebbero perdite solo se le banche centrali dovessero smorzare la domanda aumentando sensibilmente i tassi d’interesse per paura dell’inflazione. Ciò ridurrebbe la possibilità di trasferire i maggiori costi nei prezzi, con un conseguente calo dei margini di profitto e un crollo dei prezzi azionari come all’inizio degli anni ‘80.

Il quadro di politica monetaria è totalmente diverso oggi. Le banche centrali non possono più permettersi di avere tassi d’interesse in aumento e prezzi azionari in calo perché questo metterebbe nei guai i loro Stati altamente indebitati e farebbe crollare l’economia. Uno scenario che le banche centrali vogliono sicuramente evitare. Anche se gli effetti collaterali a lungo termine di una politica monetaria permanentemente espansiva si stanno facendo sempre più evidenti. Un esempio è il rapido aumento dei prezzi delle attività, che rende quasi impossibile per le giovani famiglie comprare casa.

La preoccupazione degli azionisti che le banche centrali temano l’inflazione è quindi infondata. Da tempo sono prigioniere degli Stati e dei mercati finanziari e hanno perso il loro potere di contrastare l’inflazione. Non gli resta che mostrarsi senza paura. Non per niente la Federal Reserve statunitense ha adattato la sua strategia di politica monetaria alla nuova situazione, dicendosi disposta a tollerare un futuro aumento dell’inflazione oltre il target, a patto che ciò non influisca su una media a lungo termine, che non si sa come viene calcolata.

Anche la Banca Centrale Europea (BCE) ha allineato la sua strategia. Finora valeva un target d’inflazione “inferiore ma vicino al 2%”. Ora l’inflazione dev’essere in media del 2% e può quindi scendere al di sotto e soprattutto salire al di sopra di tale soglia. Il tasso può quindi “moderatamente” superare il target. La BCE sta già preparando i mercati a questa eventualità. Ad esempio Isabel Schnabel, membro tedesco del Comitato esecutivo della BCE, ha fatto sapere ai mercati che un tasso d’inflazione superiore al 3% in Germania non la spaventa. Sa benissimo che in una zona monetaria con economie molto diverse e in parte politicamente instabili, a bassa crescita e altamente indebitate, aumenti significativi dei tassi d’interesse possono avere gravi conseguenze. Ne va del futuro dell’euro, una moneta che probabilmente non esisterebbe più senza l’aiuto attivo della banca centrale.