Vampata inflazionistica

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Mentre il dibattito sull’inflazione si fa sempre più acceso, proviamo a esaminare i fattori che stanno determinando questo rialzo e le implicazioni che ciò potrebbe avere sulle politiche delle Banche Centrali nel medio termine.

Fondamentali

I dati economici più recenti lasciano intendere che i mercati obbligazionari si troveranno a doversi confrontare con un’impennata inflazionistica più lunga del previsto. Negli Stati Uniti, a settembre, l’indice generale dei prezzi al consumo ha toccato il +5,4% anno su anno, bissando l’incremento annuale più consistente dal 2008 a questa parte. Il Federal Open Market Committee ha inoltre rivisto al rialzo le previsioni di inflazione, prospettando che di qui a fine 2024 la mediana si manterrà al di sopra del 2%. Se da un lato gran parte dei fattori che stanno spingendo l’inflazione rispecchiano la comparsa di shock “temporanei” nelle filiere produttive (ad esempio difficoltà nelle assunzioni, impennata dei prezzi delle materie prime, scarsa disponibilità di semiconduttori e affollamento dei trasporti), è anche vero che la presenza di un numero consistente di fattori inflativi aumenta le probabilità di una corsa dei prezzi al consumo più duratura. Le Banche Centrali temono sempre di più che se il fenomeno dovesse persistere, potrebbe, a lungo andare, sfociare in rivendicazioni salariali e incidere sulle previsioni di inflazione. Nell’ultimo rapporto sull’occupazione degli Stati Uniti, i nuovi impieghi nei settori non agricoli hanno deluso, attestandosi a 194.000 unità. Il risultato inferiore alle attese è stato in parte compensato dalla revisione al rialzo (+169.000) dei progressi realizzati nei due mesi precedenti e dalla flessione del tasso di disoccupazione dal 5,2% al 4,8%. Riteniamo pertanto che in occasione della riunione di novembre la Federal Reserve (Fed) annuncerà l’avvio del processo di ridimensionamento del programma di stimoli, con la progressiva riduzione degli acquisti di obbligazioni nei nove mesi a venire, aprendo alla possibilità di un rialzo dei tassi a metà del 2022. Analogamente, la Banca d’Inghilterra (BoE) ha annunciato a chiari termini di voler accelerare la risposta all’aumento del costo del lavoro e alla forte crescita dell’occupazione nel Regno Unito, prospettando la possibilità di un rialzo dei tassi britannici prima del rallentamento del programma di acquisto di attivi. Esattamente opposto è l’orientamento della Banca Centrale Europea (BCE) che si mantiene ottimista, come emerge dalle dichiarazioni di Philip Lane, chief economist, secondo il quale la BCE guarderà oltre i fattori inflativi transitori. La dichiarazione sembra non tener conto delle difficoltà delle filiere produttive che, stando alle previsioni, dovrebbero proseguire fino a 2022 inoltrato, né dei crescenti timori sul rincaro del gas naturale, che a settembre hanno spinto l’inflazione complessiva al +3,4% su base annua, né delle aspettative di inflazione, che rimangono superiori agli obiettivi della BCE.

Valutazioni quantitative

Nel mese, il nervoso dibattito sull’inflazione ha determinato un aumento dei rendimenti dei titoli di Stato, che hanno visto i tassi di riferimento a 10 anni aumentare di 9 punti base (pb) all’1,58% negli Stati Uniti, 8 pb al -0,11% in Germania e 7 pb all’1,09% nel Regno Unito. La crescita, tuttora superiore al tendenziale, e l’inequivocabile annuncio della Fed in merito al ridimensionamento del programma di stimoli stanno spingendo i rendimenti dei Treasury verso il nostro obiettivo prospettico a sei mesi dell’1,5-2,0%. Per di più, il mercato sta scontando un aumento dei tassi dello 0,4% soltanto, nonostante l’inflazione statunitense stia viaggiando a livelli superiori all’obiettivo fissato dalla Fed. Nel Regno Unito e in Canada, invece, il mercato si aspetta un aumento dei tassi superiore a 0,8 punti percentuali. Nell’Eurozona, il mercato sta scontando un aumento di appena 10 pb di qui a fine 2022, complici i tentativi della BCE di moderare le aspettative di inflazione.

Fattori tecnici

Poiché le difficoltà nelle filiere produttive, l’inflazione e l’orientamento meno accomodante delle Banche Centrali sono destinate a proseguire, riteniamo che gli investitori farebbero bene a monitorare il proprio posizionamento affinchè sia breve di duration, sottopesando in particolare i mercati dove la normalizzazione aumenterà prima rispetto ad altri. Preferiamo un posizionamento trasversale su più mercati, ad esempio privilegiando i Bund tedeschi ai Treasury statuntensi, alla luce delle diverse politiche adottate da Eurozona e Stati Uniti per affrontare l’inflazione.

Cosa significa per gli investitori obbligazionari?

I maggiori prezzi dell’energia si ripercuotono sull’inflazione e questo, indirettamente, potrebbe far salire i rendimenti. Ciò sembrerebbe indicare che, nell’attuale contesto, la scelta migliore sarebbe posizionare i portafogli per una duration breve. Inoltre, l’impennata dei prezzi dell’energia espone un’Europa fortemente dipendente dalle importazioni a un rischio elevato e avvantaggia, contestualmente, i Paesi esportatori. Con i tassi d’inflazione di breakeven a 10 anni già sui livelli massimi post-2008 nel Regno Unito, ai massimi decennali in Germania e al livello più alto da maggio negli Stati Uniti, gli investitori dovrebbero tentare di capire quando il mercato smetterà di guardare ai rincari energetici come causa di forte inflazione per considerarli un freno alla crescita.