Nervosismo per la crescita, depressione per l’inflazione

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Il sentimento di risk-off ha guidato i mercati nel corso della settimana, con timori per la crescita che hanno continuato a crescere e le Banche Centrali che hanno rafforzato la narrativa secondo cui la lotta all’inflazione è più urgente rispetto al sostegno dell’attività economica.

Poiché gli investitori si sono resi conto che “La Fed non è vostra amica”, sembra si stia affermando una mentalità da mercato bear, in cui si tende sempre più a vendere qualsiasi rally, sostituendo il principio buy every dip. Tale cambiamento di sentiment continua a essere avvertito soprattutto negli asset con i maggiori livelli di partecipazione degli investitori retail, sebbene anche tra alcuni investitori istituzionali che incontriamo si stia diffondendo un crescente shock, a fronte delle perdite accumulate da inizio anno.

I rendimenti dei titoli di Stato a lunga scadenza sono saliti nel corso dell’ultima settimana o due, mentre le probabilità di recessione prospettiche sono aumentate. Nel complesso, il posizionamento degli investitori si è orientato verso posizioni corte rispetto alla duration.

Il sell-off dei rendimenti obbligazionari è stato visto come il principale catalizzatore che ha messo sotto pressione gli asset di rischio durante il primo trimestre, per cui negli ultimi due mesi è stato sempre più diffuso l’utilizzo di operazioni a breve duration per coprire le posizioni lunghe in asset di rischio. Tuttavia, poiché le preoccupazioni si orientano verso il rallentamento della crescita e l’aumento dell’inflazione, queste coperture potrebbero essere ridotte.

Osserviamo che, quando i mercati sono sotto pressione, spesso si tende a ricercare il pain trade che innesca la capitolazione. Da questo punto di vista, riteniamo che i rendimenti potrebbero scendere ancora nella prossima settimana o due. Tuttavia, continuiamo a pensare che tale movimento si rivelerà in ultima analisi più che altro un rally in un mercato bear per i tassi. Pertanto, nel caso in cui i rendimenti dovessero scendere in modo sostanziale, saremmo propensi a chiudere le operazioni a lunga duration e a cercare di posizionarci nuovamente in posizione short.

Gli incontri con la comunità di policymaker continuano a rafforzare l’opinione che l’inflazione sia “il” tema dominante per i banchieri centrali. Sembra che ci sia accordo sul fatto che la Fed non smetterà di aumentare i tassi fino a quando l’indice PCE (Personal Consumption Expenditures) core non scenderà sotto il 3%, e questo potrebbe non accadere per altri 12 mesi o forse più. Il mercato del lavoro appare eccessivamente rigido e si teme che la concorrenza per la manodopera faccia lievitare i salari.

In questo contesto, i dati del Regno Unito degli ultimi tre mesi hanno registrato un’accelerazione dei salari al ritmo del 7% e, per quanto i banchieri centrali vogliano inviare messaggi sul rispetto del contenimento dei salari, la cruda realtà è che molti lavoratori sono irritati dalla prospettiva di subire una riduzione significativa dei salari in termini reali per il secondo anno consecutivo, in un momento in cui molti sperimentano tassi di inflazione personale molto superiori a quelli riportati nei dati ufficiali del CPI (Consumer Price Index).

Con i sindacati che si mobilitano per chiedere accordi salariali dell’11%, dovrebbe essere chiaro ai banchieri centrali che il mercato del lavoro dovrà raffreddarsi per evitare che le pressioni salariali continuino a provocare effetti inflazionistici di secondo impatto e che l’inflazione rimanga bloccata a livelli elevati.

Da questo punto di vista, sembra chiaro che, sebbene le condizioni finanziarie si siano notevolmente inasprite nel 2022 (con un movimento speculare a quello sperimentato nel corso dell’ultimo ciclo “aggressivo” della Federal Reserve nel 1994), all’inizio erano molto accomodanti, per cui sarà necessario un ulteriore inasprimento nelle settimane e nei mesi a venire.

Di conseguenza, i prezzi degli asset potrebbero continuare a essere messi a dura prova. Anche se forse abbiamo visto il peggio negli ultimi mesi, potrebbe essere troppo presto per adottare un outlook più costruttivo.

In definitiva, siamo convinti che la Fed prevarrà sull’inflazione e riteniamo che una recessione negli Stati Uniti resti improbabile, assegnandole una probabilità di circa il 30% nei prossimi 18 mesi. I rischi di recessione sono molto più elevati nell’Eurozona e, dato che l’inflazione non raggiungerà il suo picco prima del terzo trimestre, ci aspettiamo una compressione dei consumi in un momento in cui le prospettive di spesa in conto capitale sono influenzate dall’elevata incertezza geopolitica.

Nel frattempo, siamo propensi a credere che l’economia britannica verrà considerata come già in recessione all’inizio di questo trimestre, una volta che – più in là nel corso dell’anno – avremo analizzato i dati. Ad oggi, il governo britannico ha aumentato le tasse, anche se i governi di tutta Europa hanno allentato la pressione fiscale sulla scia dello shock dei prezzi dell’energia.

Riteniamo che anche Rishi Sunak, il Cancelliere dello Scacchiere, inizierà presto ad aumentare la spesa, ma siamo propensi a credere che i policymaker del Regno Unito abbiano tardato a capire che l’economia è entrata in stagflazione e sembrano incapaci (più che impotenti) di capire cosa fare al riguardo.

Continuiamo a essere sorpresi dal fatto che la Banca d’Inghilterra stia abbandonando l’ortodossia politica in materia di politica monetaria, nella speranza che l’inflazione riesca in qualche modo a curarsi da sola, senza che le aspettative inflazionistiche si disancorino lungo il percorso.

Sembra che la BoE sia eccessivamente paranoica riguardo all’impatto sui prezzi delle case, ma in ultima analisi, un costo più basso degli alloggi avvantaggerebbe i lavoratori poveri nel medio termine, e quindi non è chiaro se coloro che hanno acquistato seconde e terze case rappresentino un gruppo da proteggere in questo modo. Inoltre, la continua erosione della credibilità della Banca d’Inghilterra rappresenta un rischio crescente per tutti gli asset del Regno Unito. In effetti, i Gilt sudafricani offrono agli investitori rendimenti superiori del 10% rispetto ai Gilt britannici, in un Paese che siamo propensi a ritenere abbia una Banca Centrale migliore e migliori prospettive di crescita e inflazione.

Nel frattempo, i rumor sulla revoca di alcuni aspetti dell’accordo sulla Brexit rischiano di pesare sulle prospettive degli asset britannici e della sterlina, anche se un raro secondo posto conquistato all’Eurovision Song Contest dello scorso fine settimana potrebbe anche essere visto come l’indicazione che il resto dell’Europa non è poi così risentita nei confronti del Regno Unito come lo è stato negli ultimi anni, sulla scia della decisione di lasciare l’UE.

Gli spread del credito continuano a essere influenzati dalle azioni e, in generale, la liquidità del mercato rimane relativamente scarsa. Anche i deflussi di fondi stanno pesando sul sentiment, con un impegno ancora limitato da parte degli asset allocator istituzionali, anche se vi sono prove sempre più evidenti che il credito del mercato pubblico stia diventando più attraente rispetto a quello del mercato privato, in quanto le valutazioni del primo migliorano proprio quando il deterioramento del credito diventa una preoccupazione crescente per il secondo.

Detto questo, i mercati delle nuove emissioni rimangono aperti e, sebbene gli spread si stiano allargando, non c’è ancora molto che possa far riflettere o preoccupare i policymaker, anche considerando i loro timori per il fatto di non avere accesso a dati validi dai mercati privati e per le aree in cui lo stress potrebbe crescere più rapidamente.

Per quanto riguarda i mercati emergenti, il rallentamento della Cina continua a destare preoccupazione, ma la voce molto più diffusa negli ultimi tempi riguarda la crescente crisi alimentare. L’inflazione dei prezzi alimentari è una notizia devastante per diverse economie in via di sviluppo e rafforza ulteriormente il senso di vincitori contro vinti, sulla scia dei massicci cambiamenti delle condizioni commerciali relative tra i vari Paesi.

Guardando al futuro

Rimane difficile avere più fiducia riguardo al futuro. La Russia sta perdendo terreno in Ucraina, ma continuiamo a temere che Putin sia spinto a intensificare la guerra, visti i costi non recuperabili del crescente numero di vittime. In Cina, le autorità si trovano ad affrontare una sfida per stabilizzare il mercato immobiliare, anche a fronte di un allentamento delle politiche in un contesto economico debole, mentre continua la lotta verso lo zero-Covid. Nel resto del mondo, i consumatori stanno lottando contro l’inflazione su diversi fronti e, sebbene questo possa portare a spendere i risparmi accumulati con la pandemia, la realtà resta che il contesto macro è pieno di incertezze.

Nel frattempo, con l’inflazione che questa settimana ha toccato il massimo in 40 anni nel Regno Unito, con l’RPI (Retail Price Index) all’11,1%, vale la pena riflettere sul fatto che l’ultima volta che ciò accadde ci sono voluti Margaret Thatcher e 10 anni dolorosi prima che l’inflazione venisse riportata al livello attuale dell’obiettivo della BoE. Il Governatore della Banca d’Inghilterra Bailey e i suoi colleghi sperano di essere fortunati, anche se è ampiamente riconosciuto che più a lungo persiste un superamento dell’inflazione, più questo si consolida attraverso le aspettative di inflazione. Alla luce di ciò, ulteriori aumenti dei prezzi in vista significano che l’inflazione britannica deve ancora raggiungere il suo picco.

Il 1982 sembra ormai un lontano ricordo: il Regno Unito era impegnato in una guerra (nelle Falkland) che la Russia condannava. Le economie lottavano contro la recessione. Una pinta di birra costava 50 pence nel Regno Unito e i rendimenti del Tesoro decennale degli Stati Uniti raggiungevano un impressionante 13%. Tutto cambia, affinché nulla cambi.