Europa, come investire tra inflazione record ed economia in frenata

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Da una parte c’è la corsa dell’inflazione, che in maggio nell’eurozona ha toccato il record storico di +8,1% su base annua (stima flash Eurostat). Dall’altra c’è la frenata economica, legata alla guerra in Ucraina e all’effetto Covid sulle catene di fornitura globali: secondo le ultime previsioni di Bruxelles, la crescita del Pil reale decelererà quest’anno al 2,7% (rispetto al 4% previsto qualche mese fa) e al 2,3% nel 2023 (anziché il 2,7%). Ancora più forte il rallentamento dell’Italia, con un Pil che passa dal +4,1% previsto prima della guerra ad appena un +2,4%.

I problemi sul tavolo sono molti: il carovita, il rallentamento della crescita, ma soprattutto ci sono le banche centrali – a partire dalla Fed – decise a una stretta sui tassi di interesse, per raffreddare l’inflazione anche a costo di penalizzare l’economia. L’azionario soffre, l’obbligazionario sconta un deciso rialzo dei tassi, i Paesi più indebitati come l’Italia tornano a guardare con ansia lo spread dei titoli di Stato. Come investire in Europa nel quadro di un contesto così difficile?

Un primo elemento da tener presente è la fragilità complessiva dell’Europa, ancora troppo legata alla Russia per l’energia, priva di coordinamento fiscale e di forze armate comuni, ma anche di supply chain resilienti in particolare per le materie prime. Senza dimenticare lo storico problema della frammentazione economica del Vecchio continente, diviso tra Paesi con livelli di competitività molto differenti.

Vale la pena puntare sull’Italia?

Una prima idea sarebbe quella di investire sull’Italia, che è di gran lunga la maggior beneficiaria del piano Next Generation Ue: riceverà dall’Europa 191,5 miliardi di euro, di cui quasi 70 miliardi a fondo perduto e oltre 122 miliardi in prestiti. Come ricorda la Bce (“ECB Economic Bulletin, 1/2022”), da solo il nostro Paese incasserà quasi la metà dell’intero pacchetto “Recovery and Resilience Facility”, per la precisione il 48% del totale, contro il 17% della Spagna, il 16% di Francia e Germania, l’8% della Grecia. Una montagna di denaro, destinata alla modernizzazione del Paese anche attraverso le famose riforme strutturali pianificate da cinquant’anni ma ancora irrealizzate.

I rischi del ciclo politico

Sulla carta i pilastri del piano di riforme (sovvenzionati da Bruxelles) dovrebbero spingere macrosettori come sostenibilità, smart city, sanità, digitale, istruzione e tanto altro.

Attenzione però perché le possibilità che qualcosa vada storto non mancano, dai ritardi per i bandi del Pnrr ai costi record delle materie prime, dal ciclo politico (con i primi segnali di avvio della campagna elettorale per le politiche dell’anno prossimo) a possibili cambi di Governo. Il rischio Italia è sempre nel radar degli investitori, preoccupati della lentezza di Roma nel portare a termine le riforme strutturali dalle quali dipende l’erogazione dei fondi europei.

Chi vuole scommettere sulle aziende tricolori, poi, di fatto ha a disposizione solo l’azionario. Il fixed income in Italia è cannibalizzato dai BTp poiché non esiste un mercato di obbligazioni corporate profondo come in Francia o in Germania, e nemmeno quello delle cartolarizzazioni sugli investimenti immobiliari: quindi per investire sulle imprese del nostro Paese l’unica strada è rappresentata dall’equity.

La sorpresa Spagna

Ma in Europa non c’è solo l’Italia. Altri due Paesi si stanno rivelando interessanti in questa fase delicata. Il primo è la Spagna, che oltre a incassare a sua volta una buona fetta dei finanziamenti europei è molto più resiliente sul fronte energetico. Madrid, infatti, importa dalla Russia meno del 10% del suo fabbisogno, contro il 50% di Italia e Germania e il 40% della Francia. Non è un caso che l’indice guida della Borsa spagnola, l’Ibex, sia quasi in pari da inizio anno, a differenza del Ftse Mib di Piazza Affari o del Dax tedesco.

Il “dividendo energetico” britannico

Un altro Paese da tenere in considerazione è, un po’ a sorpresa, la Gran Bretagna. Nonostante una pesante inflazione legata in questo caso anche all’effetto Brexit, l’indice guida Ftse100 è uno dei pochi in territorio positivo da inizio anno. Probabilmente perché il Regno Unito ha fonti di approvvigionamento energetico ben diversificate: tra cui il nucleare, le importazioni dalla vicina Norvegia, le piattaforme nel Mare del Nord e gli enormi giacimenti di carbone del Galles, abbandonati da decenni ma riattivabili in tempi brevi in caso di emergenza. La Borsa britannica, insomma, incassa il “dividendo” di una maggior indipendenza energetica da Putin e dai suoi capricci.

L’incognita commodity

Un elemento di incertezza per le Borse è rappresentato dalle violente oscillazioni delle materie prime. Non è escluso che il greggio tocchi i 120 dollari, ma il vero picco dei prezzi potrebbe verificarsi su commodity poco seguite dai mercati come il titanio o i fertilizzanti, materie prime necessarie per ottenere altre materie prime agricole. Russia e Ucraina, per esempio, sono rispettivamente il terzo e il quinto maggior produttori mondiali di titanio: assieme possiedono il 68% del metallo, indispensabile per la costruzione di ogni turbina, da quelle degli aerei a quelle delle centrali idroelettriche. Tra l’altro sul titanio o sui fertilizzanti non esistono future quotati, anzi spesso si fatica anche a ottenere un prezzo spot.

Lo spettro del protezionismo agricolo

Attenzione infine al pericolo di “guerra del grano”, ovvero al rischio che la scarsità di commodity agricole inneschi una chiusura del commercio internazionale. Gli ultimi segnali sono poco incoraggianti, con l’India che blocca le esportazioni di grano o l’Indonesia che vieta le vendite all’estero di olio di palma, di cui è la maggior produttrice mondiale. L’inflazione potrebbe far crescere il protezionismo, che a sua volta innescherebbe ulteriori fiammate dei prezzi: sarebbe un “loop” molto pericoloso, che bisogna cercare di evitare a ogni costo.