Biodiversità: il prossimo obiettivo chiave degli investimenti sostenibili
Il degrado della biodiversità globale occupa regolarmente le prime pagine dei giornali, a causa dei cambiamenti climatici e degli eventi meteorologici estremi che minacciano gli habitat naturali, dall’Artico alla foresta pluviale brasiliana e alla grande barriera corallina australiana.
L’ultimo “Living Planet Report” del WWF rivela infatti che la popolazione mondiale di fauna selvatica é crollata circa del 69% dal 1970.
Questo fenomeno ha quindi implicazioni enormi per la vita come la conosciamo, pervade infatti anche il nostro quotidiano, a causa di attività legate all’uomo quali l’agricoltura intensiva, il disboscamento e i cambiamenti climatici. Le ricerche indicano che un quarto dei mammiferi autoctoni è a rischio di estinzione in Gran Bretagna, mentre il numero di insetti – la dieta base di molti uccelli, rettili e piccoli mammiferi – è diminuito di quasi il 60% negli ultimi 18 anni.
Per questi e numerosi altri motivi il declino delle specie e la protezione degli habitat saranno destinati ad occupare presto il centro della scena e sono considerati il prossimo obiettivo chiave degli investimenti sostenibili subito dopo la lotta al cambiamento climatico
I costi umani ed economici
Gli ecosistemi complessi sono naturalmente responsabili di numerosi processi che vanno dall’impollinazione delle colture alla purificazione dell’acqua fino all’isolamento del carbonio. L’OCSE stima che, a livello globale, questi “servizi” naturali valgano tra i 125 e i 140 trilioni di dollari all’anno – più di 1,5 volte il PIL mondiale.
La nostra incapacità di proteggere la biodiversità negli ultimi decenni ci sta costando cara anche in termini economici. Tra il 1997 e il 2011, il cambiamento della composizione del suolo e il degrado del territorio sono costati tra i 10.000 e i 31.000 miliardi di dollari all’anno in termini di perdita di “servizi ecosistemici”, secondo il rapporto dell’OCSE. Numeri impressionanti che fanno riflettere.
L’UE e il Regno Unito stanno introducendo misure per cercare di contrastare il fenomeno, ufficializzate con la pubblicazione nel 2020 della Strategia dell’UE per la biodiversità per il 2030. L’obiettivo è quello di portare la biodiversità europea su un percorso di recupero entro il 2030, anche attraverso la trasformazione di almeno il 30% delle terre e dei mari europei in aree protette e ben gestite. Il precedente governo inglese ha anche avviato una riforma che prevede dei finanziamenti all’agricoltura con l’obiettivo di restituire parte della terra alla natura.
Ci sono implicazioni potenzialmente enormi anche per il mondo delle imprese, anche se l’impegno delle aziende nei confronti della biodiversità è ancora in una fase relativamente iniziale, più o meno come lo era con il cambiamento climatico circa 20 anni fa.
La responsabilità delle imprese per la biodiversità
Riteniamo che questo impegno abbia due aspetti, entrambi rilevanti per gli investitori. Il più diretto è l’opportunità, per un ventaglio di aziende specializzate, di creare soluzioni che favoriscano una maggiore biodiversità, direttamente o indirettamente. Tra queste, le società responsabili della riduzione dell’inquinamento, quelle che si occupano di fornire energia pulita, le imprese di trasporto che favoriscono la transizione verso alternative più pulite e quelle che operano nel campo della pesca e dell’agricoltura sostenibili.
Tra questi sottosettori possiamo trovare numerose storie di successo: società di gestione dei rifiuti come Republic Services, sharing economy come Brambles e fornitori di soluzioni di energia pulita come First Solar, il produttore di pannelli fotovoltaici.
Un secondo impegno, più complesso, è che le imprese di qualsiasi settore incorporino attivamente le questioni relative alla biodiversità come parte integrante delle loro politiche di gestione del rischio e ESG. Attualmente sono pochissime le imprese che riportano questi dati o che hanno messo in atto strategie concrete con obiettivi chiari.
Un aspetto problematico è che, sebbene non sia difficile dimostrare che i danni agli habitat naturali hanno costi economici per numerosi settori – l’industria alimentare e quella del turismo ne sono esempi lampanti – questi costi sono ad oggi esterni alle imprese che li causano. Ancora più difficile è poi dimostrare se e come i mercati finanziari ne tengono conto.
La via del progresso
Le nuove normative possono contribuire a cambiare questa situazione, spingendo le aziende a misurare e ad assumersi la responsabilità dei costi che generano con la perdita di biodiversità.
È in fase di elaborazione una Taskforce for Nature-Related Financial Disclosures, sul modello della TCFD che supervisiona i rischi legati al clima, con l’obiettivo di fornire un quadro di divulgazione per le organizzazioni che devono riferire e agire sui rischi per il mondo naturale. Inoltre, uno dei principali indicatori obbligatori PAI (Principal Adverse Impact, una serie di indicatori che mirano a mostrare agli operatori del mercato finanziario come determinati investimenti influiscano negativamente sull’ambiente e sulla società), parte della SFDR, è incentrato proprio sulla valutazione della quota di investimenti in società con siti/operazioni situati in aree soggette a perdita di biodiversità o nelle loro vicinanze, quando le attività di tali società influiscono negativamente su tali aree.
È inoltre incoraggiante vedere che i principali asset manager stanno iniziando a considerare la biodiversità come un elemento chiave dell’investimento responsabile.
Ma mentre misurare le emissioni di carbonio è relativamente semplice una volta che il sistema è stato messo in atto, misurare l’impatto aziendale su qualcosa di così sfaccettato e interconnesso come il mondo naturale è molto più articolato e impegnativo.
Siamo tuttavia agli inizi. È sempre più evidente che la biodiversità, come la mitigazione dei cambiamenti climatici, deve essere posta al centro degli investimenti responsabili e possiamo aspettarci di sentirne parlare sempre di più nei mesi e negli anni a venire.