Rinnovato interesse per gli emergenti, quali i fattori?

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In questi mesi lo scenario è stato scosso dalla crisi bancaria negli Stati Uniti, dai timori delle possibili conseguenze, dall’approssimarsi della “r-word”, la parola che comincia con “r” e che non si può pronunciare, dalla resistenza appiccicosa dell’inflazione di base, dall’aumento delle tensioni internazionali.

All’elenco di questi fattori di rischio si dovrebbe aggiungere l’azzardo della corretta interpretazione dello scenario, dall’andamento dei tassi (e la probabile sottovalutazione di ciò che farà la Fed) alle conseguenze della crisi bancaria negli Stati Uniti fino all’appuntamento, finora rimandato, con la recessione più annunciata della storia. Se gli Stati Uniti sono alle prese con il calo graduale dell’attività economica, si presentano più favorevoli le prospettive per i paesi emergenti, aiutati dal ritorno della Cina, potente catalizzatore dell’economia dell’area e della crescita globale.

Nei paesi del sud del mondo c’è effervescenza, dopo l’Arabia Saudita anche il Brasile di Lula allenta la relazione con Washington e si avvicina a Pechino. Dilma Rousseff, poche settimane fa eletta presidente della New Development Bank, non ha perso tempo nel manifestare la volontà di sottrarre il Brasile e le altre economie emergenti all’influenza del dollaro.

I candidati alla sostituzione del biglietto verde, nell’interscambio dei paesi membri della banca, sono il renminbi cinese e il real brasiliano. La New Development Bank, istituita nel 2015 dai paesi “BRICS” come risposta indipendente alla Banca Mondiale, farà la sua parte, nel quadriennio 2022- 2026 il 30% dei prestiti erogati dovrà essere in valute locali.

Lo status di valuta di riserva del dollaro è stato intaccato dalla guerra: le sanzioni adottate nei confronti della banca centrale russa hanno fatto suonare più di un campanello di allarme. I paesi del Sud del mondo detengono in dollari americani una vasta parte delle loro riserve e hanno cominciato a vendere: la quota di dollari nelle riserve globali è scesa sotto il 60%, “una delle quote più basse degli ultimi vent’anni” scrive la Banca dei Regolamenti Internazionali.

L’affievolimento della dipendenza dal dollaro mitigherebbe per le economie emergenti i rischi di cambio e faciliterebbe l’accesso al credito, ma è altrettanto vero che l’obiettivo della de-dollarizzazione è ancora lontano, la debolezza delle ragioni di cambio non va confusa con la funzione di valuta di riserva globale. I paesi avversari degli Stati Uniti ritengono che la dedollarizzazione sia l’inevitabile esito di un mondo multi-polare. Può darsi che la progressiva perdita di influenza del dollaro possa essere l’esito naturale dello scorrere della storia, al momento però il problema della de-dollarizzazione non è nel dollaro ma nei contendenti che vorrebbero sostituirlo.

È vero, il renminbi sta guadagnando di quote di mercato, Pechino regola gli acquisti di petrolio con la propria valuta, nel 2018 ha istituito una propria borsa merci a Shanghai dove i contratti futures sul petrolio, in dollari in tutte le altre borse del mondo, sono regolati in renminbi. Ma si tratta di quantità irrilevanti rispetto alla totalità del mercato, l’economia cinese compete con quella americana ma le performance economiche non bastano. Ogni valuta esprime il portato anche non economico dei vari paesi, fatto da istituzioni, ordinamenti, culture politiche. Dietro al dollaro ci sono libere istituzioni democratiche, lo stato di diritto, la tutela della proprietà, le libertà individuali, la libera impresa e il mercato da cui discendono la libera convertibilità della valuta. Valori che hanno ovviamente a che fare con la crescita economica ma che non sono squisitamente economici.

Nonostante la leadership incontrastata sul mercato valutario, prima o poi anche il dollaro perderà il suo “esorbitante privilegio”, è successo un secolo fa alla sterlina e succederà in futuro anche al dollaro. Ma quel futuro è ancora lontano, non sarà facile abbandonare la divisa che tutti cercano quando le cose si mettono male. Nel futuro prossimo invece, il tasso di cambio del biglietto verde con le altre valute sembra fronteggiare una fase di perdurante debolezza che avvantaggia gli asset europei ed emergenti.

Il PIL cinese è cresciuto nel primo trimestre del 4,5% su base annua grazie all’impennata dell’export, agli investimenti in infrastrutture e ai consumi al dettaglio. È un valore sopra le attese ma ancora al di sotto dell’obiettivo del 5% fissato dal governo, teniamo però conto che siamo ancora al primo trimestre, le performance sono previste in miglioramento nel corso dell’anno, la volontà politica del governo è chiara, se la crescita dello scorso anno è stata molto al di sotto dell’obiettivo, quest’anno l’obiettivo del 5% non dovrà essere mancato per non incrinare il tasso di crescita di lungo termine.

Anche l’inflazione delle economie emergenti dovrebbe dare segnali di marcata discesa in virtù dell’effetto base dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari. I mercati emergenti continuano a essere interessanti, le loro prospettive di crescita migliori di quelle dei mercati sviluppati.

Il calo dei mercati azionari lo scorso anno e le prospettive di rallentamento nei prossimi mesi costituiscono un’altra tappa nell’itinerario odisseico dell’investitore-viandante, i mercati emergenti forniscono l’isola dove trovare sollievo, le valutazioni sono estremamente interessanti, a forte sconto rispetto ai listini dei paesi avanzati, dalla loro non ci sono soltanto i noti fattori strutturali di demografia, urbanizzazione e scolarizzazione ma anche il momentum economico e l’interesse degli investitori.