I rischi che corrono gli investitori nella value chain della plastica

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Secondo i dati diffusi dal WWF, ogni anno vengono scaricati nell’oceano tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate di plastica; una quantità che, stando a quanto riporta la Banca Mondiale, dovrebbe aumentare del 70% entro il 2050. Se questa previsione si rivelasse esatta, i nostri mari potrebbero arrivare a ospitare più plastica che pesci, con conseguenze disastrose per la biodiversità: si stima infatti che ingerire questi rifiuti porterebbe alla morte di 100mila mammiferi e di 1 milione di uccelli; inoltre, metterebbe a rischio estinzione circa 700 specie marine sul pianeta, il 17% delle quali sono già classificate come “in pericolo critico”.

Tuttavia, la portata di questo scenario travalica i confini della sostenibilità, raggiungendo anche i segmenti dell’economia e della finanza. Infatti, questo quadro presenta numerosi rischi anche per le imprese e, quindi, sugli investitori e sulle scelte che questi possono compiere in termini di asset allocation. A seguire, noi di Ofi Invest AM presenteremo proprio quelli che sono i maggiori rischi a cui sono esposte le società che fanno un uso più o meno intensivo della plastica, facendo anche alcuni esempi pratici delle conseguenze che ne possono derivare se non adeguatamente gestiti.

Rischi reputazionali

Alla luce dei dati riportati sopra, i mezzi d’informazione hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica numerose controversie legate all’inquinamento degli oceani, che hanno fatto sì che la consapevolezza e l’urgenza di adottare misure concrete si diffondessero su larga scala. In particolare, queste azioni sono richieste alle imprese che fanno maggiore affidamento sulla plastica, come quelle attive nel manifatturiero – dove viene impiegata principalmente negli imballaggi – e nell’agroalimentare, in quanto i grandi gruppi di questo settore sono coloro che creano la maggior parte della plastica dispersa nell’ecosistema.

Secondo il report annuale pubblicato dal movimento Liberi dalla Plastica, che ingloba organizzazioni non governative e individui che agiscono in gruppo o in maniera indipendente, le due imprese che si contendono la vetta della classifica come principali produttori di rifiuti plastici se la contendono Coca-Cola Company e PepsiCo, una posizione che occupano sin dalla prima pubblicazione di questo report, nel 2017.

Nella classifica sono stati citati anche altri marchi molto noti come Unilever, Nestlé, Procter & Gamble, Mondelez international, Philip Morris International, Danone e Colgate-Palmolive. Sebbene molti di questi nomi abbiano già intrapreso delle iniziative per aumentare l’uso di plastica riciclata, il movimento appena citato ha presentato un’istanza formale affinché riducano l’utilizzo di plastica in generale, indipendentemente che sia vergine o riciclata.

Inoltre, ci sono ONG, come Greenpeace, che continuano a criticare questi brand per l’eccessivo uso del materiale in questione negli imballaggi e, soprattutto, nei prodotti monouso. In particolare, l’accusa è quella di ricorrere a sistemi di raccolta poco trasparenti nei mercati in via di sviluppo, così da rientrare nei parametri richiesti per il rispetto degli obiettivi posti sulla sostenibilità. Al fine di evitare queste ombre e di fare in modo che gli investitori non si allontanino, noi di Ofi Invest AM sosteniamo l’iniziativa per cui i grandi gruppi del settore agroalimentare dovrebbero assumersi una parte dei costi generati dallo smaltimento dei rifiuti facendosi carico della raccolta e dello smaltimento di questi ultimi, così da dimostrare di essere player responsabili sulle questioni ambientali.

Rischi sociali (e sanitari)

Oltre ai rischi ambientali e reputazionali esposti in precedenza, la plastica rappresenta un rischio per la
società e per la salute in senso più stretto. Si stima, infatti, che ogni settimana un essere umano assuma
mediamente 5 grammi di plastica (l’equivalente di una carta di credito), semplicemente cibandosi di specie
marine che, a loro volta, avevano ingerito microplastiche disperse nell’oceano. Se, da un lato, ancora non ci
sono dati certi sugli effetti che queste abbiano sull’organismo, dall’altro la plastica è spesso trattata con pigmenti e coloranti, che sono stati associati a disfunzioni delle capacità cognitive e della fertilità. Un ulteriore elemento di preoccupazione è fornito da Environment International, una rivista scientifica che ha pubblicato uno studio su come i livelli di plastica nel sangue e addirittura nelle placente delle donne incinte abbiano raggiunto picchi allarmanti.

Rischi normativi e (forse) legali

L’ultimo rischio, ma non per importanza, è rappresentato dal fatto che l’inquinamento generato dalla plastica sta diventando un problema che molte giurisdizioni cercano di risolvere anche attraverso l’emanazione di normative ad hoc e, di conseguenza, per vie legali. A dimostrazione di ciò, bisogna ricordare due eventi molto importanti che si sono verificati nel 2022. Il primo è stato l’Unea, ovvero l’assemblea sul clima delle Nazioni Unite in cui le delegazioni di 175 stati si sono riunite a Nairobi e hanno approvato una risoluzione che prevede la creazione di una commissione internazionale che sviluppi un testo normativo, legalmente vincolante, entro il 2024 allo scopo di mettere fine all’inquinamento da plastica. Il secondo è stato il One Ocean Summit, tenutosi a Brest, in cui i capi del governo di 40 nazioni si sono formalmente impegnati a combattere la pesca illegale, l’inquinamento da plastica e di proteggere gli oceani attraverso la stesura di un ambizioso trattato.

Tuttavia, nonostante questi impegni, la situazione ad oggi non è molto incoraggiante. Infatti, sebbene oltre 120 paesi bandiscano o tassino la plastica monouso, la lotta all’inquinamento è ancora molto indietro. Per fare alcuni esempi, molti di questi paesi applicano queste regolamentazioni solo a oggetti particolari, come le borse, che però rappresentano una piccolissima parte del problema, oppure sono molto efficienti a combattere gli scarichi illegali, ma meno nell’incentivare l’utilizzo di materiale riciclato. Soffermandoci sull’Unione Europea, lo scorso 30 agosto ha emanato la regolamentazione denominata “Reach”, che regolamenta, e in alcuni casi mette al bando, l’uso di microplastiche. In particolare, il loro impiego sarà vietato nella cosmetica, nei prodotti per le pulizie e sui terreni a destinazione sportiva. Tuttavia, questa include anche numerose rinunce che concedono fino a 12 anni di tempo alle imprese attive in questi e altri settori di adeguarsi; una concessione che è stata denunciata sia da ClientEarth, sia dall’European Environment Bureau (EEB).