La difesa costa, come finanziarla?
Lo shock della guerra in Ucraina, le pressanti richieste americane e le sfide
geopolitiche hanno aumentato l’urgenza per l’Europa di incrementare la
spesa per la difesa. Il concetto di difesa oggi deve inoltre comprendere nuove
aree come la cybersecurity e lo spazio, che richiedono ingenti investimenti.
Per la verità, nonostante le critiche ricorrenti provenienti da oltre Atlantico, i
bilanci per la difesa europei sono piuttosto elevati: combinati, i bilanci militari
dei 27 Stati membri rappresentavano 287 miliardi di dollari nel 2023, ovvero
il terzo bilancio militare al mondo dopo quello degli Stati Uniti (880 miliardi
di dollari) e della Cina (309 miliardi), ben davanti a quello della Russia (126
miliardi).
L’Unione europea (UE) ha quindi un potenziale militare di livello mondiale,
ma la messa in comune dei 27 eserciti europei rimane teoria. Un miglior
coordinamento e una razionalizzazione dei processi sono possibili, ma la
difesa resta un ambito di sovranità per eccellenza.
I dibattiti sulla centralizzazione della difesa europea non sono nuovi e possono
essere anzi datati a partire dalla guerra fredda. Tuttavia, le ambizioni europee
in materia di difesa furono frenate già nel 1954 dal fallimento della Comunità
europea di difesa, prima proposta e poi respinta dalla Francia.
Si è invece rafforzata l’alleanza atlantica e, nel corso dei decenni, le relazioni
NATO-UE sono state costruite e formalizzate in accordi che permettono all’UE
di utilizzare le capacità della NATO in caso di necessità. Sottotraccia è rimasta
però una contrapposizione tra i Paesi che privilegiano la vicinanza agli Stati
Uniti e quelli, come la Francia e la Germania, che aspirano a una leadership
europea.
L’esigenza di maggior autonomia e le richieste di Donald Trump di aumentare
le spese per la difesa sembrano portare a ineluttabili investimenti in questo
campo. Alla fine del 2024, articoli di stampa suggerivano un nuovo sforzo di
finanziamento europeo di 500 miliardi di euro (pari al 2,7% del PIL dell’UE)
per integrare la spesa esistente.
Ma movimentare simili risorse nel quadro generale della politica fiscale dell’UE
è complesso soprattutto perché, dopo l’espansione fiscale attuata durante la
pandemia, l’UE e, conseguentemente, molti governi nazionali hanno varato
politiche fiscali più austere e mirate al rientro dei deficit.
Si torna quindi al cuore delle difficoltà dell’Unione europea, vale a dire la
mancanza di un’unione fiscale o, quanto meno, di finanziamenti comuni per
progetti condivisi.
Il bilancio dell’UE è stato spesso criticato come complicato e opaco.
Considerando le crescenti sfide che l’Unione deve affrontare, come la difesa,
la digitalizzazione e il cambiamento climatico, il bilancio dell’UE è soprattutto
troppo piccolo, pari all’1-2% del PIL complessivo all’anno.
L’allentamento della relazione transatlantica potrebbe imporre all’Europa uno
scatto in avanti e, se così fosse, potrebbero esserci implicazioni positive anche
su altri fronti a medio termine, a partire dalla credibilità internazionale.
Poi, per esempio, la difesa potrebbe essere un volano per l’innovazione,
di cui l’UE ha un grandissimo bisogno, come è stato negli Stati Uniti che
proprio in questo modo hanno creato internet, il GPS, il forno a microonde,
le supercolle, i droni e tanto altro.
Ma resta da sciogliere un nodo particolarmente spinoso: creare maggior
debito a livello dei singoli Paesi, cioè chiedere l’ennesimo sforzo ai bilanci
nazionali che a distanza di tempo si tradurrà in austerity, oppure a livello
dell’Unione, come in occasione della pandemia e della creazione del Recovery
Fund?
In quest’ultimo caso, potrebbe essere creato un nuovo strumento dell’UE
per finanziare progetti di difesa collettiva oppure fare ricorso al Meccanismo
europeo di stabilità (MES). Il finanziamento dei progetti dell’UE tramite
l’emissione di debito comune sarebbe l’opzione più razionale ed efficace, ma
gli ostacoli politici sono elevati per via dell’opposizione, almeno sinora, della Germania e di altri Paesi del nord Europa.
Durante la conferenza sulla sicurezza di Monaco dello scorso 14 febbraio,
la Presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha quindi
proposto di attivare la clausola di deroga generale nell’ambito delle regole
di bilancio europee per gli investimenti nella difesa. Si tratterebbe quindi di
sospendere temporaneamente i vincoli di bilancio come durante la pandemia
per effettuare investimenti a livello dei singoli Paesi che, però, significherebbe
nel tempo sottrarre risorse ad altre aree.
Realisticamente, senza finanziamenti comuni sarà difficile avvicinarsi ai
desiderata degli Stati Uniti e a quanto necessario ad assicurare all’Europa
maggiore autonomia. Chiedere ai Paesi di stressare i propri bilanci
nazionali sottrarrebbe risorse alla crescita, già latitante, o al benessere delle
popolazioni.
D’altra parte, avviare progetti europei di ampio respiro nella difesa
inciderebbe in modo limitato sull’indebitamento dell’UE ma darebbe un
messaggio credibile ai mercati finanziari nonché agli altri attori geopolitici,
rappresentando un passo avanti nell’integrazione europea.
Insomma, una maggiore integrazione in questo campo potrebbe rivelarsi
un’opportunità sul piano geopolitico, economico e anche tecnologico.
Tuttavia, non mancano gli ostacoli politici, soprattutto se le logiche nazionali di breve termine prevarranno nuovamente rispetto a considerazioni di più
ampio respiro.