Le promesse di Trump e il mercato del reddito fisso
Famiglie e imprese americane mostrano bilanci solidi: il rapporto debito/Pil delle prime è calato nel corso dell’ultimo quindicennio e anche il loro livello di indebitamento rispetto al reddito disponibile è ai minimi degli ultimi 25 anni
Dopo la forza eccezionale del periodo Covid, il mercato del lavoro Usa si trova in una fase di normalizzazione, ma non crediamo si stia indebolendo, anzi i livelli di occupazione per la fascia 25 – 54 anni sono vicini ai massimi degli ultimi 25 anni
Oggi lo scenario è diverso rispetto al 2016: la crescita dell’economia Usa può dirsi, per certi aspetti, eccessiva e l’inflazione resta su livelli elevati
Crediamo che le politiche del Trump 2.0 saranno più equilibrate rispetto al primo mandato, in caso contrario, il presidente correrebbe il rischio di venire meno alle promesse fatte in campagna elettorale, ovvero inflazione più bassa e più potere d’acquisto per le famiglie
Riteniamo che, per domare l’inflazione, sia necessario indebolire la domanda attraverso una riduzione dei prezzi degli asset, che potrebbe essere ottenuta grazie a un aumento dei tassi d’interesse, soprattutto di quelli a lungo termine
Come Payden abbiamo ridotto il rischio di credito a partire dalla fine del 2024. Il nostro posizionamento sui tassi di interesse è differenziato: siamo corti sulla parte lunga della curva dei rendimenti, ma siamo sovrappesati sulla parte a breve
Nell’ambito del credito, stiamo valutando in modo negativo i settori più vulnerabili all’aumento dei tassi, come l’immobiliare commerciale e il credito al consumo, mentre apprezziamo le società investment grade, i prestiti bancari e alcune aree del debito dei mercati emergenti
L’outlook sui mercati dei prossimi 3-6 mesi sarà influenzato principalmente dall’andamento dell’economia statunitense e dalle mosse della nuova amministrazione Trump. A differenza di quanto accaduto nel 2008, il ciclo economico attuale è guidato dai salari e dal reddito, non dal credito: i salari nominali, in particolare, hanno messo a segno una crescita del +4/6% su base annua nel corso degli ultimi otto trimestri e oggi si trovano ancora ben al di sopra dei livelli pre-Covid. Negli ultimi trimestri, con il calo dell’inflazione, anche i salari reali sono risaliti, determinando un aumento del potere di acquisto e rafforzando la tenuta dei consumi americani. A questo si aggiunga la solidità dei bilanci di famiglie e imprese: il rapporto debito/Pil delle famiglie statunitensi è calato nel corso dell’ultimo quindicennio e anche il loro livello di indebitamento rispetto al reddito disponibile è ai minimi degli ultimi 25 anni. Dal 2008 in poi, anche il rapporto tra debito delle imprese e ricavi netti si è ridotto in maniera sostanziale, con la leva finanziaria che oggi è ai minimi degli ultimi sessant’anni. Questo significa che famiglie e imprese americane sono meno sensibili rispetto al passato agli aumenti dei tassi, in particolare di quelli a breve termine, e che hanno margine per fare ricorso alla leva finanziaria (per quanto non sembrino ancora intenzionati a farlo).
Dopo la forza eccezionale del periodo Covid, il mercato del lavoro Usa si trova in una fase di normalizzazione, ma non crediamo si stia indebolendo, anzi i livelli di occupazione per la fascia 25 – 54 anni sono vicini ai massimi degli ultimi 25 anni. Negli ultimi 6-12 mesi, poi, circa un terzo dell’aumento del tasso di disoccupazione è stato determinato dai nuovi ingressi sul mercato del lavoro e credo che, in futuro, l’immigrazione rappresenterà una carta vincente. Inoltre, i prezzi degli asset sono chiaramente vicini ai massimi storici, inclusi immobili, azioni e spread di credito, che sono ai livelli più stretti dell’ultimo ventennio. Per il momento, l’inflazione si trova al di sopra dell’obiettivo della Federal Reserve e si sta mostrando abbastanza resiliente. Sul fronte della politica monetaria, la Fed ha tagliato i tassi d’interesse di un centinaio di punti base, così che ad oggi il suo orientamento ci sembra piuttosto neutrale e, in generale, le condizioni finanziarie sembrano favorevoli ad un allentamento monetario.
Dopo la riunione della Fed di settembre, in cui i policymaker hanno optato per un taglio dei tassi d’interesse di riferimento di 50 punti base, spinti dalle preoccupazioni per il deterioramento del mercato del lavoro, abbiamo assistito a un allentamento delle condizioni finanziarie e a un aumento dei tassi d’interesse e dei prezzi degli asset, con l’attività economica in netta ripresa. Dopo le elezioni di novembre, la conquista da parte dei repubblicani di Presidenza, Camera e Senato ha rafforzato l’ottimismo di aziende e imprenditori, portando a un ulteriore aumento dei prezzi degli asset, a un nuovo restringimento degli spread creditizi e all’allentamento delle condizioni finanziarie. Infine, dopo la riunione della Fed di dicembre, in cui i policymaker hanno deciso un taglio da 25 punti base, il presidente Powell ha lanciato un messaggio piuttosto hawkish, mettendo in pausa il percorso dei tagli dei tassi ed evidenziando la solidità dell’economia Usa, un punto di partenza ben diverso rispetto al 2016, che non può non influenzare la politica monetaria e la presidenza Trump. Nel 2016, infatti, l’economia statunitense era alle prese con bassi livelli di crescita e inflazione, così che la prima amministrazione Trump ha potuto adottare misure fiscali anticicliche per stimolare l’economia, senza doversi preoccupare dell’aumento dei prezzi. Oggi lo scenario è diverso: la crescita dell’economia Usa può dirsi, per certi aspetti, eccessiva e l’inflazione resta su livelli elevati. Il tasso medio di crescita reale degli ultimi sei trimestri è stato del +3% circa, oltre cento punti base in più rispetto al tasso medio di crescita reale dei sei trimestri precedenti alle elezioni del 2016. L’inflazione, invece, ha sfiorato il 4% nei dodici mesi che hanno preceduto le elezioni dello scorso novembre, circa 200 punti base in più rispetto allo stesso periodo del 2016.
Il motivo per cui gli americani hanno votato Trump non è sicuramente la crescita deludente, né la crisi del mercato del lavoro, quindi, ma l’inflazione elevata che sta scoraggiando la classe media, come emerge chiaramente dai sondaggi pre e post-elettorali, secondo cui l’inflazione dovrebbe essere il tema prioritario per i primi cento giorni di mandato (laddove i dazi figurano in fondo alla lista). Per questo, crediamo che le politiche del Trump 2.0 saranno più equilibrate rispetto al primo mandato: in caso contrario, il presidente correrebbe il rischio di venire meno alle promesse fatte in campagna elettorale, ovvero inflazione più bassa e più potere d’acquisto per le famiglie, compromettendo l’esito delle elezioni di midterm del prossimo anno.
La Fed, dal canto suo, appare più che mai concentrata sul tema inflazione, con Powell impegnato a difendere i risultati faticosamente raggiunti, per non essere ricordato come il presidente che non è riuscito a contenere l’inflazione. Tutto questo in un momento in cui le aspettative di crescita sono elevate rispetto agli ultimi due anni, con le attese di crescita reale per i prossimi tre o quattro trimestri che si aggirano intorno al +2%.
Riteniamo che, per domare l’inflazione, sia necessario indebolire la domanda attraverso una riduzione dei prezzi degli asset, che potrebbe essere ottenuta grazie a un aumento dei tassi d’interesse, soprattutto di quelli a lungo termine, che quindi potrebbero dover aumentare prima di poter diminuire. Questo perché l’economia Usa è meno sensibile ai Fed Funds rispetto ai cicli precedenti, per cui i prezzi degli asset, proprio come l’economia, sono più sensibili ai tassi a lungo termine. In sintesi, riteniamo che i rendimenti a lungo termine debbano aumentare perché i prezzi degli asset possano raffreddarsi. Un aumento dei rendimenti a lungo termine dovrebbe provocare un raffreddamento dei prezzi degli asset, un rallentamento della domanda e un calo dell’inflazione: questo potrebbe significare un 2025 non sfavillante per l’equity e il credito, oltre a un contesto difficile per i rendimenti obbligazionari.
In questo scenario, come Payden & Rygel, abbiamo ridotto il rischio di credito a partire dalla fine del 2024. Il nostro posizionamento sui tassi di interesse è differenziato: siamo corti sulla parte lunga della curva dei rendimenti, ma siamo sovrappesati sulla parte a breve, perché pensiamo sia a buon mercato rispetto alla funzione di reazione della Fed e che si tratti di un’ottima copertura del credito. Ad oggi, infatti, il mercato prezza soltanto due tagli dei tassi per i prossimi 12-18 mesi, salvo un aumento dei timori per la crescita o della debolezza del mercato del lavoro. Nell’ambito del credito, stiamo valutando in modo negativo i settori più vulnerabili all’aumento dei tassi, come l’immobiliare commerciale e il credito al consumo, mentre apprezziamo le società investment grade, i prestiti bancari e alcune aree del debito dei mercati emergenti. Ad oggi, i rendimenti all-in del reddito fisso sono ancora sani, ma gli spread si sono ristretti e la volatilità è troppo bassa; pertanto, la selezione dei titoli resta fondamentale e riteniamo che l’offerta unconstrained rappresenti un importante elemento di flessibilità. Gli asset rischiosi sono molto apprezzati, ma hanno un problema di valutazione, vulnerabile al trade-off tra inflazione e crescita. In conclusione, crediamo che lo scenario sia diverso rispetto a nove anni fa e che gli spread creditizi avranno probabilmente un esito piuttosto positivo nel 2025.
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