Ubi: credere o no nel futuro del titolo?

di Fabrizio Guidoni -

Per chi possiede le azioni della banca trasformata in Spa, scadono i termini per esercitare il recesso. Ma ci sono molti buoni motivi per non farlo

Ubi Banca ha messo in soffitta l’abito da istituto popolare e ha ormai indossato da diversi giorni il vestito della festa, quello di “società per azioni”, potendo entrare così al ballo della finanza che conta. Per dirla in maniera tecnica, la delibera dell’assemblea degli azionisti dell’istituto di sabato 10 ottobre, che ha sancito con un plebiscito tra il circa 20% del capitale presente la trasformazione in società per azioni, è stata iscritta subito dopo nel registro delle imprese. Diventando così ufficiale.

Ma chi aveva in mano le azioni il 10 ottobre (e le ha tuttora in portafoglio) e non ha votato per la delibera di trasformazione in società per azioni può ancora esercitare il diritto di recesso entro oggi, inviando una dichiarazione di recesso tramite raccomandata A/R, facendone anche richiesta formale alla propria filiale di riferimento con cui prendere contatto subito per sapere i dettagli tecnici.

Recedere o non recedere?

Qualche piccolo azionista più di un pensiero ce l’ha già fatto: utilizzare il diritto di recesso che chi non ha partecipato al voto sulla trasformazione in Spa ha in mano? In sostanza, restituire le azioni alla società, al prezzo garantito di 7,288 euro per azione anziché tenerle in portafoglio o addirittura venderle subito in Borsa? Certo, il prezzo offerto è allettante, essendo sensibilmente superiore ai 6,70 euro della vigilia dell’assemblea e ancora sopra alle attuali quotazioni. Tuttavia, prendendo a prestito le parole del amministratore delegato Victor Massiah, “sul recesso mi aspetto molto poco”.

A parte il caso dei pochi contrari ideologicamente alla trasformazione, che potrebbero manifestare il proprio dissenso col gesto di ridare indietro le azioni Ubi alla società stessa, i motivi per non recedere a 7,288 euro sono rilevanti. Intanto, le quotazioni negli ultimi giorni (7,06 euro di massimo) hanno ridotto di molto il gap sul prezzo offerto. Se si unisce questo aspetto al fatto che il pagamento arriverà tra sei mesi, periodo durante il quale tutto in Borsa può succedere mentre si è però persa la disponibilità dei titoli perché ormai messi nella mani di Ubi esercitando il diritto di recesso, ecco che gli svantaggi diventano superiori ai vantaggi.

Se non si crede al progetto Spa, è forse meglio vendere subito in Borsa i titoli, avere la liquidità subito disponibile in portafoglio e non pensarci più. E non è tutto.

Da parte di Ubi l’esborso totale da pagare a chi esercita il recesso non potrà eccedere, per regolamento dell’operazione, il tetto di circa 350 milioni di euro. Una soglia decisa per non sforare il coefficiente “common equity tier 1” dell’11,74% della banca. Dunque, se il diritto fosse esercitato da molti azionisti non tutte le azioni sottoposte a recesso potranno essere ritirate dalla banca.

Ci sono poi da considerare alcuni aspetti tecnici: la procedura per esercitare il diritto di recesso richiede diversi passaggi, ed espone perciò l’azionista al rischio di sostenere alcune spese in banca relative all’operazione. Anche per questo, nel caso non si voglia restare azionisti sarebbe meglio valutare la vendita diretta in Borsa piuttosto che recedere.

Ma per decidere consapevolmente bisogna tenere conto di altri due fattori: il nuovo equilibrio degli azionisti e le aspettative degli analisti. Con il primo “giudicato” positivamente dal secondo.

Intanto, va detto che nei giorni successivi al grande passo la Borsa ha promosso l’iniziativa: le quotazioni sono salite in poche sedute dai 6,70 euro della chiusura di venerdì 9 ottobre, alla vigilia dell’evento, fino a superare la soglia dei 7 euro di questi giorni.

Cosa succede ora? È l’inizio di una nuova vita da protagonista del panorama finanziario italiano (e magari anche oltre confine)? Oppure si rivelerà un passo più lungo della gamba da “popolare” che tutto sommato le ha permesso di stare in piedi in un lungo periodo di crisi economico-finanziaria mantenendo un saldo legame col territorio? Solo il tempo lo dirà.

Ma intanto ci sono alcuni aspetti da tenere conto per individuare i futuri possibili del della Ubi Banca Spa e delle sue azioni.

Perché le vesti da Spa

Innanzi tutto è giusto rendere merito a Ubi: è la prima delle dieci banche popolari nel mirino della riforma voluta del governo Renzi a trasformarsi in società per azioni. Questo significa, soprattutto, addio al “voto capitario”, per cui un azionista pesava nelle assemblee per un solo voto, indipendentemente dal numero di titoli in portafoglio. Se non altro, è stato introdotto comunque un tetto al diritto di voto. Ora le azioni si conteranno pur fino a un tetto del 5%. Ma le implicazioni del passaggio non finiscono qua. Il passaggio a Spa è stato caratterizzato dalla decisione di ridurre il numero dei consiglieri e dall’introduzione di nuovi meccanismi di funzionamento dell’assemblea.

Una cosa va comunque detta. Nel caso di Ubi l’accelerazione del passaggio in società per azioni è stata legata ai tempi di rinnovo del consiglio di amministrazione, in scadenza ad aprile del prossimo anno. Con la nuova impostazione societaria, il prossimo vertice verrà eletto da una maggioranza dettata dal peso delle quote in mano agli azionisti. Non è un caso che i sostenitori della bontà del passaggio giudichino positivamente la trasformazione in Spa anche per questo: nella forma di popolari sono vulnerabili alle interferenze interne ed esterne e hanno regole di voto che possono ostacolare il processo decisionale.

In buona compagnia…

“La trasformazione in Spa è un elemento positivo che dovrebbe portare un maggior numero di investitori istituzionali a entrare nel capitale della banca”, commenta Intermonte Sim. “Le due fondazioni (Cuneo e Pavia), oggi azioniste con il 4% del capitale, potrebbero cercare di creare un nocciolo duro di azionisti che possa influenzare il rinnovo del board e l’individuazione del partner in caso di fusione”.

Questo “nocciolo duro” insieme alle storiche famiglie bresciane e bergamasche potrebbero mettere assieme almeno un 12-13% del capitale, quota che potrebbe anche a salire. Attorno ci saranno invece i fondi di investimento, il cui peso stimato è attorno al 45%. Ma, come ha detto Massiah, “solo a marzo sapremo quali sono i raggruppamenti di azionisti e come andranno ad eleggere il consiglio”.

Da Spa a sposa?

Così vestita da Spa, per gli addetti ai lavori Ubi è pronta a diventare sposa, in un futuro di fusioni e acquisizioni che sembra inevitabile per il mondo delle cooperative bancarie italiane.

“Non è un segreto che stiamo parlando con diverse banche tra cui il Banco Popolare e che a sua volta il Banco sta parlando con altre banche popolari tra cui noi. Sono tutte operazioni complesse, niente è ovvio ed è prematuro qualsiasi tipo di commento. E comunque le operazioni prima le fai e poi le racconti”, ha spiegato Massiah, ricordando che la fusione “non è obbligatoria: non è positiva di per sé, va ben ponderata, ben meditata”.

Il top manager ha escluso che il governo possa imporre alle banche un salvataggio di sistema del Monte Paschi di Siena. “Quindi scegliamo noi”, ha puntualizzato Massiah, non escludendo neppure l’ipotesi “toscana” precisando che “se Mps bussa alla mia porta non ho motivo di dire che non rispondo a Mps. Parlare si parla con tutti ma non è obbligatorio fare operazioni”. Una fusione tra Ubi e Mps inoltre, “sarebbe più impegnativa” e “potrebbe mettere a rischio la solidità patrimoniale” dell’istituto lombardo.

Questo matrimonio non s’ha da fare (almeno fino a fine 2016)

In ogni caso, su questo fronte, se siete azionisti mettetevi pure comodi e attendete. “Il consolidamento delle banche popolari appare ancora distante a causa delle resistenze del top management, dei forti interessi regionali e dei diversi stili di corporate governance tra le popolari”, ha sottolineato Fitch in una nota di commento alla trasformazione di Ubi Banca in Spa. Quello di Ubi probabilmente sarà “un caso isolato nel 2015”: Fitch non si aspetta che altre banche popolari ne seguano l’esempio quest’anno. Per questo, “il tanto necessario consolidamento del settore probabilmente slitterà al secondo semestre del 2016 nel migliore dei casi”.

Ma il titolo agli analisti piace

Nel complesso le case d’affari hanno un giudizio positivo sul titolo post trasformazione. Anche se per parlare di target in Borsa, tutto dipende da quale sarà il nome del partner bancario con cui convolerà a nozze. Su questa linea è Société Générale, che in ogni caso ha una posizione “buy” (comprare) sul titolo. Da parte sua Banca Imi ha confermato il proprio rating “add” (aggiungere in portafoglio), con target price a 8,31 euro. Più attendisti gli esperti di Intermonte secondo cui, ad esempio, l’eventuale matrimonio sull’asse Veneto-Lombardia potrebbe “avvenire senza il riconoscimento di particolari premi”.