Quelle pensioni sotto i 500 euro

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Dal prossimo anno non ci sarà più l’integrazione delle rendite inferiori alla cosiddetta “minima”. Ma ancora il tema non è stato affrontato nelle proposte di riforma

Mi pare di aver capito che dall’anno prossimo non ci sarà più l’integrazione al minimo delle pensioni più basse. È vero? In base a quale disposizione di legge? E come verrà affrontato il problema di chi ha pensioni inferiori a 500 euro al mese?

Risponde Walter Quattrocchi

È vero. Dal 2016 non sarà possibile integrare al minimo le pensioni di importo più basso di chi andrà in pensione di vecchiaia con decorrenza 1° gennaio.

Nel 2016 infatti compie 20 anni il sistema contributivo, stabilito nella riforma Dini del 1995, che si applica a chi ha iniziato a lavorare dal 1° gennaio 1996: la scadenza coincide con il requisito minimo, 20 anni di contribuzione, necessario per richiedere la pensione di vecchiaia, insieme a quello anagrafico (66 anni e sette mesi se lavoratore dipendente o autonomo, 65 anni e sette mesi se lavoratrice dipendente, 66 anni e un mese se lavoratrice autonoma).

Con il metodo di calcolo contributivo si prevedono pensioni assai meno generose di quelle calcolate con il metodo retributivo o “misto” (retributivo più contributivo).

Rispetto al retributivo, che garantiva una pensione in genere pari all’80-85% del reddito da lavoro, il contributivo copre in media circa la metà.

Questo vale in linea di massima per lavoratori che hanno contratti di lungo termine, che seguono una carriera regolare, cambiando poche posizioni nella vita. Carriere frammentate, con contratti a termine, che non prevedono scatti d’anzianità, per periodo discontinui, porteranno a pensioni bassissime.

Si calcola che un dipendente trentenne, che oggi ha un reddito netto mensile di mille euro e che accumulerà forti buchi contributivi, prenderà appena 408 euro netti il mese, sotto la pensione minima, che per il 2015 risulta di 502,39 euro. Un autonomo nella stessa situazione arriverà ad appena 341 euro netti il mese.

Per loro, però, come abbiamo visto, non ci sarà nessuna integrazione al trattamento minimo, come previsto dalla riforma Dini e confermato dalla riforma Fornero.

Gli assegni aumentano, ma solo di un po’, se si sceglie di stare al lavoro più a lungo, come confermato dalla proposta Boeri, che tende a incentivare chi si trattiene al lavoro attraverso una “spalmatura” del montante contributivo accumulato dal lavoratore

Per esempio, un trentenne che ha appena cominciato a lavorare, con un reddito netto di mille euro al mese, a 65 anni e nove mesi avrà una pensione di 514 euro (cioè il 51% dell’ultimo stipendio), se la sua retribuzione rimane stabile nel corso del tempo e se la crescita del Pil italiano non supera il 2%. L’assegno salirà a 600 euro (pari al 60%) se andrà in pensione a 69 anni e un mese e il Pil tornerà a crescere.

Al momento le proposte del presidente dell’Inps Tito Boeri, come quella del parlamentare Cesare Damiano, sulla flessibilità in uscita verso la pensione, non affrontano il problema delle pensioni calcolate solo con il metodo contributivo e senza poter essere integrate al minimo.

Le attuali proposte sulle pensioni puntano solo a cercare di risolvere il problema dei lavoratori esodati, dei precoci, o di chi in generale ha interesse a uscire prima possibile per andare in pensione, anche per evitare licenziamenti.

All’introduzione del metodo contributivo, nella concezione della Riforma Dini, si affiancava lo sviluppo della previdenza complementare che, con il conferimento del Tfr del lavoratore nel fondo pensione in cui si aderiva, doveva integrare la pensione di primo pilastro.

Questo sviluppo della previdenza complementare non si è realizzato secondo le previsioni, e nel 2016 si dovrà affrontare il problema di pensioni calcolate con il metodo contributivo senza la possibilità di integrarle al minimo.