Donne e pensione, la proposta del Governo

Roberto Carli -

Il nostro sistema previdenziale sconta un significativo “gender gap” come sottolineato da una recente indagine condotta dalla Commissione Lavoro della Camera e dalla Relazione annuale dell’Inps.

ll più basso tasso di attività femminile, si sottolinea, la maggiore discontinuità delle carriere legata alla maternità e ai più gravosi carichi familiari, il più ampio ricorso a forme contrattuali flessibili e al part-time, sono tutti fattori che, soprattutto in un sistema di calcolo contributivo, si traducono in pensioni più basse e nella necessità per le donne di lavorare più a lungo per maturare i requisiti di accesso al pensionamento confrontandosi con le difficoltà di trovare o mantenere un’occupazione in un’età avanzata.

Sulle donne grava poi un imminente, significativo innalzamento dell’età pensionabile. Nel 2018 si completa infatti l’equiparazione prevista dalla riforma Fornero con gli uomini nel settore privato e nel lavoro autonomo con riferimento alla pensione di vecchiaia (66 anni e 7 mesi) con un aumento di 1 anno per le dipendenti private e di 6 mesi le lavoratrici autonome e parasubordinate.

Dal 2019 scatterà poi l’innalzamento automatico dell’età pensionabile alla speranza di vita accertata all’Istat., sia per uomini che per donne. Nell’ambito del tavolo di confronto Governo-Sindacati in corso per “scrivere” la fase 2 della riforma delle pensioni il Ministro Poletti ha “calato” una proposta per cercare di fornire un “salvagente” all’universo femminile tutelando la maternità.

L’idea è quella di estendere la “portata” dell’Ape sociale che, va ricordato, è una prestazione assistenziale che si propone , per un periodo sperimentale fino al 31 dicembre 2018, di fornire un “reddito ponte” (di massimo 1500 euro mensili) fino al pensionamento ad alcune categorie meritevoli di tutela dalla collettività. Possono accedervi in particolare soggetti in possesso dei seguenti requisiti:

  1. età anagrafica minima di 63 anni; stato di disoccupazione a seguito di cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, dimissioni per giusta causa o risoluzione consensuale, che abbiano concluso integralmente la prestazione per la disoccupazione loro spettante da almeno tre mesi e siano in possesso di un’ anzianità contributiva di almeno 30 anni;
  2. soggetti che assistono da almeno sei mesi il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap grave e sono in possesso di un’anzianità contributiva di almeno 30 anni;
  3. soggetti che hanno una riduzione della capacità lavorativa uguale o superiore al 74 per cento, e sono in possesso di un’anzianità contributiva di almeno 30 anni;
  4. lavoratori dipendenti che svolgono, da almeno sei anni in via continuativa, specifiche professioni per le quali è richiesto un impegno tale da rendere particolarmente difficoltoso e rischioso il loro svolgimento e sono in possesso di un’anzianità contributiva di almeno 36 anni.

Il progetto del Governo è quello di favorire l’accesso all’Ape sociale da parte delle donne che potranno usufruirne con requisiti “scontati” se l’idea fosse condivisa e tradotta in Legge di Stabilità.

Più nello specifico le donne che intendono accedere all’Ape sociale potranno usufruire di una riduzione nei requisiti contributivi per anticipare ulteriormente il pensionamento di 6 mesi a figlio con un tetto massimo di 2 anni. Quindi invece di 30 anni di ‘anzianità’, come previsto ora, si potrebbe passere a 28 (da 36 a 34 anni in caso di aggancio all’Ape legato ad attività gravose).

La struttura attuale dell’Ape sociale aveva fino ad oggi infatti limitato l’accesso all’universo femminile. Secondo i dati dell’Inps le domande presentate entro il 15 luglio scorso (termine indicato dal decreto attuativo) le domande per APE sociale erano in prevalenza di lavoratori uomini.

Secondo il Governo l’applicazione della proposta porterebbe ad un aumento dall’attuale 29 per cento delle domande delle donne ad un 40 per cento.