Un rialzo anche lieve dell’inflazione può incidere sui rendimenti reali dei bond

Chris Iggo -

Nel ciclo economico in corso, l’inflazione è stata contenuta nonostante l’abbondante immissione di liquidità da parte delle banche centrali. Ma forse alcuni dei classici fattori che hanno mantenuto l’inflazione bassa, ovvero disoccupazione, capacità inutilizzata, mancanza di potere di determinazione dei prezzi e salariale da parte delle imprese, non fanno più da freno.

L’inflazione effettiva è salita, ma senza esagerare. La disoccupazione è diminuita in alcuni Paesi e i salari stanno reagendo di conseguenza, ma senza esagerare.

È ancora difficile immaginare che questa espansione termini, a fine ciclo, con un’impennata dell’inflazione e della crescita che richiederebbe un forte rialzo dei tassi di interesse. Tuttavia, gli yield e i rendimenti obbligazionari sono così bassi che, in termini reali, possono risentire anche di un modesto incremento dell’inflazione. Sembra opportuno dunque valutare gli effetti che possono avere le obbligazioni inflation-linked su un portafoglio di investimento.

Boom e crisi

Un ex Primo Ministro e Cancelliere dello Scacchiere del Regno Unito una volta dichiarò che il suo governo aveva messo fine al ciclo di “boom e crisi”. Sfortunatamente l’evento che dimostrò che aveva torto fu la crisi più grave per l’economia britannica dall’epoca della Grande Depressione. La recessione che colpì l’economia globale nel 2009 contrassegnò gli ultimi giorni del governo Brown, mettendo a tacere le pretese che fosse stato fatto abbastanza in termini di politica economica da domare il ciclo. Da allora abbiamo assistito, a ondate, a nuove regole, crisi finanziarie, austerity fiscale e acquisti massici di strumenti finanziari da parte delle banche centrali nel tentativo di impedire una nuova crisi e ristabilire la fiducia economica che aveva caratterizzato il decennio tra la metà degli anni ‘90 e gli anni 2000.

Gli investitori non devono illudersi che siano stati archiviati i cicli di boom e crisi e che non ci sarà un’altra recessione. Per quanto possiamo essere tentati di credere, dopo circa dieci anni di crescita economica ininterrotta negli Stati Uniti, che la Goldilocks economy possa durare per sempre, dobbiamo iniziare a prepararci alla prossima recessione e al suo possibile impatto sui portafogli di investimento. È sempre più opinione condivisa che gli Stati Uniti entreranno in recessione nel 2020; l’Europa presenta numerosi fattori di vulnerabilità di tipo strutturale nei confronti di un indebolimento della crescita globale o di un rialzo dei tassi; la Cina sta lottando contro la riduzione degli investimenti in infrastrutture e si trova nel mezzo di una guerra commerciale; alcuni mercati emergenti sono in recessione e il Regno Unito, secondo il governatore della Bank of England, dovrà affrontare un momento difficile in caso di “hard Brexit”. L’economia globale sta crescendo ancora, ma l’elenco dei rischi non va ignorato.

Eccessi di fine ciclo

In genere la fine del ciclo economico è contrassegnata dall’accelerazione della crescita (che deriva da nuovi stimoli, da una ripresa degli investimenti fissi o dall’aumento dei consumi che fanno diminuire il risparmio), da un’impennata dell’inflazione con l’aumento dell’occupazione e da una politica monetaria che manca il bersaglio. Vorrei concentrarmi sull’inflazione. Negli ultimi dieci anni, soprattutto da quando le banche centrali hanno fatto ricorso al Quantitative Easing, molti si aspettavano un aumento in tal senso. Io ero uno di loro, e avevo torto. In realtà, l’inflazione, come la crescita del Pil, è rimasta più bassa durante questa espansione che in passato. Lo shock della domanda che ha fatto seguito alla stretta creditizia, la globalizzazione e l’impatto della tecnologia sulla richiesta di manodopera e sulla produzione, e i modelli di distribuzione hanno tutti contribuito a contenere l’inflazione. Oggi i mercati obbligazionari indicizzati all’inflazione scontano poca inflazione e il consensus prevede per il 2019 che sia più bassa rispetto all’anno in corso in molte economie sviluppate. Ad agosto la flessione dei prezzi negli Stati Uniti apparentemente rafforza l’aspettativa che l’inflazione resti bassa nonostante i salari inizino a salire. Ci siamo abituati a una bassa inflazione e chi ne aveva previsto il rialzo può essere giustamente accusato di aver gridato al lupo al lupo. Perché qualcuno potrebbe mai credere in un’impennata dell’inflazione, considerato che negli ultimi anni è stata controllata nonostante la graduale erosione della capacità inutilizzata nell’economia globale?

Momentum

Ma se non sarà la classica impennata dell’inflazione di fine ciclo a far salire bruscamente i tassi di interesse, cosa metterà fine al ciclo economico? Potrebbe essere un calo della fiducia e delle valutazioni azionarie dovuto alla guerra commerciale in corso, oppure l’intensificarsi, nei mercati emergenti, della crisi che grava sui prezzi delle materie prime e sul commercio mondiale. O forse i graduali aumenti dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve saranno sufficienti a rallentare il mercato immobiliare, i consumi e la crescita del credito entro i prossimi due anni. Dovremmo dunque ignorare l’opzione “inflazione”? Stanno succedendo cose che dovremmo valutare in termini di prospettive inflazionistiche. La prima è che l’inflazione stessa è più alta quest’anno rispetto agli ultimi tre anni e, in alcuni Paesi, è già oltre il target della banca centrale. Sì, i prezzi al consumo negli Stati Uniti ad agosto sono più bassi del previsto ma l’inflazione in genere è stata in lieve aumento nel Paese negli ultimi due anni. Non si tratta di un boom dell’inflazione, che resta su livelli piuttosto bassi, ma la tendenza indica certamente un rialzo.

Salgono i salari?

Per analizzare le possibili cause di un aumento dell’inflazione, dovremmo partire dal mercato del lavoro. La disoccupazione negli Stati Uniti è inferiore, da oltre un anno, alle stime del tasso naturale. In passato questo fenomeno aveva portato a un aumento dei salari. È quanto sembra stia accadendo anche ora. La crescita media degli utili sta salendo in numerosi Paesi e ad agosto ha toccato il 2,8% su base annua negli Stati Uniti. La curva di Phillips potrebbe non essere ben definita in realtà, ma il calo della disoccupazione in quasi tutte le economie sviluppate inizia a essere associato a un aumento dei salari nominali (e reali). La domanda di manodopera è robusta. Dunque i lavoratori possono chiedere più facilmente un aumento del reddito reale, un fattore che a livello politico ha portato all’insoddisfazione dell’elettorato.

In alcuni Paesi, il freno all’immigrazione ha provocato anche un impatto sugli equilibri di domanda e offerta di manodopera, in particolare dei lavoratori a più basso reddito. Resta da vedere fino a che punto questi incrementi (finora modesti) dei salari si trasmetteranno sui prezzi. Le aziende dispongono di abbondante liquidità, ma non è chiaro fino a che punto siano disposte a impiegarla per aumentare i salari dei dipendenti, o in che misura l’aumento di tali salari si rifletta sui prezzi allo scopo di mantenere margini solidi. In ogni caso vale la pena di monitorarli, soprattutto negli Stati Uniti dove non ci sono evidenti segnali di un indebolimento del mercato del lavoro. Proprio questa settimana c’è stato un altro calo delle richieste settimanali dei sussidi di disoccupazione, che si trovano dunque su un minimo record. Non mancano inoltre le pressioni politiche ad aumentare i salari nella “gig economy”, anche se i posti di lavoro nel settore sono in numero limitato.

Petrolio e commercio

Se vogliamo cercare i segnali di un possibile rialzo dell’inflazione, dove possiamo guardare ancora? Il petrolio è sempre una fonte di volatilità per l’inflazione globale e il suo prezzo è salito costantemente quest’anno. In questo momento il Brent scambia a pronti a 78 dollari al barile, in rialzo del 50% circa rispetto a un anno fa. La volatilità del prezzo del petrolio ha un impatto sull’inflazione dei prezzi al consumo minore rispetto al passato, ma la portata dell’aumento dei prezzi inciderà sui costi interni dell’energia, dei trasporti e dei viaggi. Potremmo anche valutare l’impatto delle politiche economiche populiste. Gli Stati Uniti hanno previsto ampi stimoli fiscali che, secondo alcune stime, faranno salire il Pil dell’1% quest’anno e il prossimo.

L’Italia vuole allentare la sua politica tributaria. In una recente conferenza stampa, Mario Draghi ha spiegato che la pressione fiscale diminuirà più in generale in Europa. Il Regno Unito probabilmente ha superato il livello massimo dell’austerity. Sono tutti fattori positivi per la crescita che si presentano però in concomitanza con un miglioramento del mercato del lavoro in diverse economie. Anche il protezionismo e il controllo dell’immigrazione potrebbero avere un impatto sui prezzi e sui salari. Se verranno introdotti nuovi dazi su una gamma più ampia di prodotti, compresi i beni di consumo, i prezzi saliranno (e credo che questo graverà anche sulla crescita e potrebbe provocare un aumento dell’avversione al rischio sui mercati). È difficile valutare l’impatto dei dazi doganali introdotti finora ma vale la pena di notare che i prezzi all’importazione negli Stati Uniti sono in costante aumento nonostante il dollaro forte. L’inflazione dei prezzi all’importazione a luglio è stata del 4,8%. All’apice della crisi delle materie prime nel 2015, l’inflazione dei prezzi all’importazione era del -12%.

Posti vacanti

Per completare il quadro, ho esaminato anche l’ultimo rapporto sul mercato del lavoro nel Regno Unito. I posti vacanti sono in continuo aumento e ad agosto hanno toccato quota 833.000, facendo salire anche il rapporto tra il numero di posti vacanti e le posizioni lavorative occupate. La distribuzione settoriale è interessante: il commercio al dettaglio e all’ingrosso e i lavori nel settore sanitario e sociale rappresentano un terzo di tutti i posti disponibili nel Regno Unito. Si è parlato di carenza di personale nel servizio sanitario nazionale britannico e non mancano i timori che la politica sull’immigrazione e sulla Brexit contribuiscano ulteriormente ad aggravare la situazione. Una soluzione a questo problema avrebbe un impatto sia a livello fiscale che sull’inflazione, sebbene non appaia chiaro se ci sia la volontà politica di intervenire in questo momento. Si tratta, comunque, di un ulteriore segnale della mancanza di posti di lavoro che alla fine potrebbe incidere sull’inflazione dei salari complessiva.

Bassissimi in termini reali

Ho imparato a non aspettarmi un’imminente impennata dell’inflazione. La portata dell’impatto di una massiccia recessione “da bilancio” sulle dinamiche inflazionistiche è apparsa chiara negli ultimi anni, e persino la grande espansione monetaria del QE ha fatto poco per compensare le forze deflazionistiche. Fino ad ora, forse. Lentamente, l’espansione ha consumato la capacità inutilizzata. Lentamente, la crescita dei salari reali inizia a riflettere il miglioramento del mercato del lavoro. Eventuali interruzioni alla libera circolazione di merci e persone imposte dalla politica potrebbero produrre un effetto inflazionistico sul fronte dell’offerta qualora le spinte populistiche fossero senza controllo.

Con i rendimenti obbligazionari ancora bassi (tra 2,5% e 3,5% negli Stati Uniti, tra -1% e 2% in Europa), anche un modesto incremento dell’inflazione è importante per determinare il rendimento reale previsto. Il rendimento reale degli strumenti finanziari è salito negli anni ‘80 e ‘90 perché l’inflazione continuava a scendere. Un’inversione di tendenza è improbabile, ma partiamo da livelli bassissimi di rendimento reale nel reddito fisso. Un lieve rialzo dell’inflazione inciderebbe sulla maggior parte dei rendimenti del reddito fisso in termini reali.

Occhio ai linker

Le stime economiche di consensus e i breakeven nel mercato delle obbligazioni indicizzate all’inflazione non stanno indicando un aumento dell’inflazione. A me però le obbligazioni inflation-linked piacciono e, come ho sempre detto, meritano un posto nell’ambito di un portafoglio multi-asset o multi-strategia. In questo momento presentano due caratteristiche interessanti. Primo, potrebbero sovraperformare i titoli di Stato tradizionali se ci sarà un rialzo dell’inflazione, considerato che i tassi di breakeven potrebbero salire verso il livello massimo del range in caso di ulteriori rialzi dei salari. Secondo, sono un buon elemento di diversificazione del rischio, considerato che il rendimento complessivo dei titoli inflation-linked presenta una correlazione negativa con l’andamento delle azioni e del credito ad alto beta, come l’high yield e i mercati emergenti.

Tale capacità di copertura deriva dalla duration di questa asset class, mentre la capacità di fare meglio delle obbligazioni tradizionali dipende dal collegamento con l’inflazione e dal potenziale di rialzo che offre rispetto ai rendimenti nominali. Se ci aspettiamo un rialzo dell’inflazione di fine ciclo e il deterioramento della performance degli strumenti più esposti al rischio, i linker dovrebbero riportare risultati relativamente positivi in termini di conservazione del capitale.

Il rimbalzo in Turchia fa bene ai mercati emergenti

E infine arriviamo ai mercati emergenti, dove l’inflazione è sempre un fattore da valutare. Questa settimana la banca centrale turca ha alzato il tasso repo a 1 settimana al 24%, un aumento una tantum di 6,25 punti percentuali. La lira turca è salita e finora ha mantenuto i guadagni realizzati. Anche le obbligazioni turche hanno risposto bene: il rendimento del segmento a lungo termine del mercato è crollato di ben 100 punti base (il prezzo delle obbligazioni turche 5,75% 2047 è salito da 73 a 80 all’annuncio sulla politica monetaria). Questa risposta positiva ha influito sull’intera asset class dei mercati emergenti: l’indice più seguito del debito in valuta forte è salito di 44 p.b. rispetto alla settimana scorsa e oggi presenta un rendimento del quasi 0,9% negli ultimi tre mesi. Il rendimento dipende interamente dal carry che evidenzia in che modo questa categoria sia diventata più appetibile con uno yield to maturity del 6,58%.

La Turchia non è certo fuori dalla crisi, ma l’intervento risoluto della banca centrale (il rialzo dei tassi era previsto ed è arrivato solo qualche ora dopo che il Presidente Erdogan aveva chiesto tassi più bassi) dovrebbe contribuire a stabilizzare la valuta e a impedire un’impennata delle aspettative inflazionistiche. Ora tutti gli occhi sono puntati sul piano di riforme strutturali a medio termine. Se ci saranno buone notizie sul fronte degli accordi commerciali tra Cina e Stati Uniti, i mercati emergenti potrebbero essere il segmento obbligazionario con le migliori performance nel resto dell’anno.


Chris Iggo – CIO Obbligazionario – AXA Investment Managers