Pirro vs Cina: 1 – 0

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Tra i mercati più rialzisti dall’inizio dell’anno troviamo, giustamente, quello statunitense e quello cinese. Dopo l’annuncio il 13 dicembre del regalo di Natale, il tanto atteso accordo commerciale tra la Cina e gli Stati Uniti è stato firmato il 15 gennaio scorso. Si scioglie così l’incertezza che ha condizionato i mercati durante tutto l’arco dell’anno.

Un’occasione ghiotta che un Donald Trump gongolante non ha mancato di sottolineare con uno “splendido accordo” per “America first”. Come non dargli ragione? L’accordo prevede acquisti massicci e senza precedenti da parte della Cina di prodotti americani in tutti i settori: agricoltura, industria, energia, servizi finanziari. Conferma il mantenimento di gran parte dei dazi all’import su 250 miliardi di dollari di prodotti cinesi. Solo i dazi previsti a partire dal mese di dicembre 2019 sono sospesi mentre quelli imposti dallo scorso settembre sono dimezzati. I prelievi contribuiranno a rimpinguare le casse americane che ne hanno disperatamente bisogno visto l’enorme deficit commerciale e di bilancio accentuato dalla presidenza Trump (5% nell’anno fiscale 2019 anche se la crescita è stata buona).

Ma non è tutto. Oltre a questi aspetti commerciali immediatamente tangibili l’accordo verte anche su questioni più sensibili a lungo termine quali la protezione della proprietà intellettuale in Cina e la lotta alla contraffazione. La Cina si impegna inoltre a non svalutare la sua moneta a fini commerciali, una delle sue armi preferite. Infine, la Cina dovrà facilitare l’accesso delle aziende statunitensi al suo mercato dei servizi finanziari. In altri termini si tratta quindi di un accordo ampio e chiaramente asimmetrico che è stato appena imposto alla prima potenza mondiale (a parità di potere d’acquisto).

Litchi sulla torta, i due paesi si accordano per risolvere le loro possibili controversie senza ricorrere a un’istanza internazionale. Si rafforza il bilateralismo caro a Trump, che gli evita di dover trattare con paesi, come la Russia, che potrebbero stringere un’alleanza con la Cina.

Eppure, è lecito domandarsi se la vittoria è totale.

Innanzitutto, l’ammontare complessivo degli impegni in termini di acquisto da parte della Cina sembra difficile da rispettare: implica un raddoppio in due anni delle esportazioni americane verso la Cina allorché alcuni prodotti tecnologici americani non possono più esservi venduti. La Cina poi dovrebbe addirittura quadruplicare i suoi acquisti agricoli americani. I cinesi possono avere improvvisamente bisogno di tutte queste importazioni di cui hanno finora fatto a meno? Dall’altra parte dell’oceano, gli Stati Uniti possono dare seguito a questi acquisti senza ridurre le esportazioni verso altri paesi? Se li dovessero ridurre il gioco non finirebbe per essere a somma zero?

Inoltre, alcune disposizioni possono generare un effetto pernicioso sull’occupazione americana. Ad esempio, con una maggior tutela della proprietà intellettuale la Cina incoraggia le aziende americane a insediarsi sul suo suolo, contribuendo eventualmente alla deindustrializzazione degli Stati Uniti. Infine, con il mantenimento in gran parte dei dazi sulle importazioni cinesi l’industria statunitense già in recessione, che utilizza molti componenti cinesi, continuerà a soffrire.

Allo stesso tempo, le misure contro Huawei e il 5G cinese stanno inducendo la Cina ad affrancarsi dalla tutela dei servizi di Google. Il gigante sta conquistando la sua autonomia.

La Cina ha quindi ceduto? Oppure, al contrario, ha messo in atto la saggezza bimillenaria di Sun Tzu che diceva: “Quando si muovono le truppe, bisogna sembrare inattivi”?

Pirro Trump dovrebbe forse (ri)leggere i classici cinesi. Ciò detto, il mercato accoglie con favore la tregua, per quanto precaria possa essere. Esultiamo pure, mantenendo la calma e sangue freddo.