Il dollaro è debole ma regna ancora incontrastato

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La scomparsa del dollaro come valuta di riserva dominante a livello mondiale è un tema ricorrente ogni volta che il biglietto verde sembra incontrare una tendenza al deprezzamento. Questa invidiata posizione è passata di mano frequentemente negli ultimi 3.000 anni circa. Pertanto, è ragionevole supporre che gli Stati Uniti a un certo punto la perderanno, anche perché il potere economico e geopolitico della Cina sta crescendo rapidamente.

Tuttavia, l’esperienza del Regno Unito di un secolo fa suggerisce che un paese può rimanere l’emittente della valuta di riserva dominante anche molto tempo dopo il relativo declino economico e geopolitico. Questo suggerisce che la detronizzazione del dollaro, se e quando avverrà, riguarderà un futuro più lontano, anche perché non sembrano esserci alternative praticabili a breve termine.

L’Europa sta appena cominciando ad affrontare le proprie carenze istituzionali, mentre i mercati finanziari cinesi non sono abbastanza profondi e liquidi con il governo che esercita ancora rigidi controlli sui capitali.

Questo ci porta a chiederci perché il dollaro si stia deprezzando dopo il forte apprezzamento di fine febbraio/inizio marzo.

Uno dei principali driver è l’atteso spostamento della Fed verso una funzione di reazione strutturalmente più accondiscendente. Ciò avviene sulla scia di un cambiamento di strategia che cerca esplicitamente un superamento dell’inflazione per compensare anni di inflazione al di sotto del target. La Fed ha ancora più spazio per abbassare i tassi reali rispetto alla BCE o alla BoJ, cosa che, di per sé, tende ad essere negativa per il dollaro. Inoltre, nel caso di una netta affermazione democratica a novembre, gli Stati Uniti potrebbero orientarsi verso politiche meno “capital friendly”, come l’aumento delle tasse sulle imprese, una maggiore regolamentazione e un accrescimento del potere contrattuale dei lavoratori. Questo renderebbe gli Stati Uniti una destinazione meno attraente per il capitale globale.

Nel frattempo, le tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti nell’ultimo anno hanno contribuito a causare l’apprezzamento del dollaro. Il motivo è da manuale: meno importazioni dalla Cina implicano una minore offerta di dollari sul mercato FX, a parità di altre condizioni. Tuttavia, le tensioni in corso potrebbero, ad un certo punto, avere anche un effetto negativo sul dollaro. Vediamo già segnali crescenti di disallineamento economico e finanziario tra Stati Uniti e Cina. Nella misura in cui la Cina e i suoi alleati si staccheranno gradualmente (o bruscamente) dal sistema finanziario globale basato sul dollaro, ciò ridurrà strutturalmente la domanda di dollari. Naturalmente la decisione di staccarsi in maniera netta non sarà presa alla leggera, perché la Cina è seduta su una grande pila di riserve di dollari.

Infine, il dollaro si è in gran parte deprezzato rispetto all’euro. Un motivo importante è la qualità del mix di politiche fiscali e monetarie in Europa, superiore a quello statunitense, che ha reso il Vecchio Continente una destinazione più attraente per il capitale globale. Per l’Europa stessa si tratta più di una maledizione che di una benedizione, in quanto tutto ciò impatta negativamente sulle esportazioni di capitali a causa di un persistente eccesso di risparmio interno pianificato rispetto alle intenzioni di investimento. Gli ulteriori afflussi netti di capitale non fanno che peggiorare la situazione – non contribuiscono a ridurre né i rendimenti dei titoli governativi emessi nell’Unione Monetaria né i costi di finanziamento delle banche perché già la BCE si assicura che questi rimangano bassi – ma causano un apprezzamento dell’euro che riduce le esportazioni nette.