È il momento degli emergenti

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Le banche centrali puntano a creare inflazione negli Usa e si è iniziato a fare leva sul deprezzamento del dollaro. Questo avrà una serie di conseguenze, in particolare sugli emergenti, che negli ultimi anni sono stati penalizzati dalla forza del dollaro, ma che ora ne usciranno vincenti. L’oro intanto è una delle asset class a maggior potenziale e continuerà a salire fino a quando scenderà il dollaro e fino a quando non si inizierà a fare politiche anti inflazionistiche.

Sono prevalentemente due i motivi che spingeranno i flussi sugli asset emergenti: il primo è l’aggancio alla crescita della Cina e il parziale decoupling dalla domanda Usa, il secondo è il fenomeno del carry trade da dollaro (con tassi reali negativi) a credito emergente in valuta locale (con tassi reali positivi). Si preannuncia quindi un vero e proprio switch dal mercato corporate occidentale, giunto alla fine del bull market, a quello emergente.

I mercati finanziari confermano il totale disinteresse per l’economia reale e si muovono ormai in un mondo virtuale, creato dagli interventi delle banche centrali e dalle aspettative di un forte recupero dell’economia. Gli Usa sono impegnati a discutere uno stimolo fiscale dopo l’altro nel tentativo di evitare la prossima ricaduta del Pil, ma sarà difficile impedirlo. La ripresa dell’economia è troppo compromessa da un tasso di disoccupazione a due cifre e i consumi, che esprimevano circa il 75% del Pil, sono in decisa contrazione. L’avvelenata miscela concomitante di alta disoccupazione, calo dei consumi e restrizione del credito al consumo disegna una traiettoria di crescita piuttosto complicata e decisamente esposta a ricadute. A questi problemi si aggiunge un contesto pre-elettorale e la riduzione dei sussidi alla disoccupazione recentemente approvati. Il settore più importante dell’economia Usa, i consumi interni finanziati dal debito, è in forte crisi e non sembra imminente alcun significativo recupero.

Il credito al consumo dipende dall’occupazione e questa dipende dalla circolazione del credito nell’economia. Allo stato attuale né una cosa né l’altra sembrano alimentarsi e le imprese non sembrano così pronte ad aumentare investimenti e occupazione in un contesto di incertezza. Si delinea uno scenario decisamente pericoloso per la tenuta di un sistema capitalistico costruito ormai su un eccesso di debito non più rimborsabile se non è sostenuto da una forte crescita economica o se non verrà ridimensionato dall’inflazione.

In concomitanza con l’avvento della pandemia, gli interventi di sostegno al sistema hanno procurato un’esplosione del debito corporate per salvare dal default migliaia di aziende e ora le aziende Usa sono più indebitate che mai. Il debito però non ha sostenuto investimenti, bensì è stato utilizzato per non fallire. A questo punto la traiettoria del debito può seguire tre scenari: rimanere su questi livelli; scendere; salire ulteriormente. Nei primi due casi l’economia sarebbe destinata a ricadere in recessione, poiché crescita del debito privato e crescita dell’economia sono strettamente correlate. Nel terzo caso, quello favorevole a una ripresa del ciclo di crescita, sarebbe opportuno chiedersi se da qui in avanti la leva finanziaria nel sistema può effettivamente salire ancora, visto che le prospettive dell’economia e dei consumi interni non appaiono così rosee.

La priorità di tutte le banche centrali del mondo sarà quella di creare inflazione con tutti i mezzi possibili, ma la politica monetaria non è uno strumento efficace per produrre inflazione. Un sistema oberato da un eccesso di debito vive in un contesto deflazionistico, soprattutto se il debito viene utilizzato per fare finanza ed erogare sussidi a chi non arriva a fine mese. Se utilizziamo il debito per la leva finanziaria otteniamo inflazione sugli asset finanziari ma non nell’economia reale e se utilizziamo il debito per erogare sussidi o per erogare credito al consumo, costruiamo una società senza futuro, dove i profitti di tale meccanismo vengono incassati da chi eroga il credito al consumo e da chi vende beni e prodotti, mentre chi sta alla base della piramide sociale, circa il 30% della popolazione americana, sopravvive con sussidi e indebitamento.

Il modello capitalistico americano, basato su un eccesso di finanza e poca economia reale, è destinato a implodere se non cambia direzione. La profittabilità della corporate America è sostenuta da basso costo del lavoro, tax rate da “paradiso fiscale” e credito al consumo erogato a margini da usura per sostenere la domanda interna. Anche la recente ondata di innovazione tecnologica produce soppressione di posti di lavoro e comprime i salari reali. Tuttavia, i recenti provvedimenti fiscali e monetari negli Stati Uniti non fanno che confermare la strategia di perseguire a tutti i costi questo modello fallimentare di crescita che porterà inevitabilmente a una nuova crisi economica e a instabilità.

Per tenere in piedi il bull market si sta distruggendo l’intero sistema capitalistico con la repressione finanziaria, che serve a canalizzare le risorse disponibili verso la borsa e non verso l’economia reale. A questo punto per fare inflazione bisogna fare debito per sostenere i redditi e gli investimenti e regolare il sistema finanziario, disincentivando i buy back e incentivando gli investimenti reali. Tutta la politica economica americana è prevalentemente orientata a sostenere il mercato azionario per difendere le rendite finanziarie di chi detiene il capitale. Questo è il motivo per il quale si accentua la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, il mercato azionario si disconnette dall’economia reale e si ricorre poi al credito al consumo per sostenere consumi insostenibili dai redditi reali che devono rimanere compressi per non compromettere il Return on Equity.  Il governo si è temporaneamente sostituito ai debitori insolventi ma il sostegno non può durare. Al momento il rischio deflazionistico è quindi ancora piuttosto elevato a causa delle insolvenze in corso nel sistema e creare inflazione nel breve termine sarà piuttosto complicato.

Per creare inflazione si è iniziato a fare leva sul deprezzamento del dollaro, la cui debolezza è un fenomeno reflazionistico perché favorisce il credito internazionale (prevalentemente in dollari) e, per un paese che è un importatore netto come gli Stati Uniti, si importa inflazione. Il dollaro debole apre tutta una serie di riflessioni sulle asset class che finora sono vissute in un contesto di dollaro forte. I treasuries americani saranno comunque acquistati dalla Fed, che attuerà una strategia molto simile a quella della Boj. Il settore del credito sarà esposto al successo o al fallimento della strategia reflazionista, tuttavia nel breve termine più che il rischio tasso c’è il rischio solvibilità e comunque le prospettive di ampi guadagni su questi asset sono piuttosto limitate. Nel silenzio generale i tassi di insolvenza salgono a ritmi mai visti. Intanto gli emergenti, che negli ultimi anni sono stati penalizzati dalla forza del dollaro, ne usciranno vincenti. Infine, le borse di Europa e Giappone risultano vulnerabili al dollaro debole, così come il Russell (small cap Usa) che è dipendente dalla domanda interna americana.