Trump più prudente sui dazi con la Cina e più aggressivo con l’Europa

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Inizia l’era del caos. L’attentato terroristico in Germania durante la crisi di governo accentua i problemi politici e spinge AFD nei sondaggi mentre la crisi politica in Francia, in concomitanza con quella tedesca, promette un lungo periodo di instabilità per l’area Euro. Nel frattempo le prime salve della presidenza Trump hanno iniziato a farsi sentire e il 2025 si presenta carico di volatilità per i mercati finanziari e di incertezze per l’economia mondiale.

La nuova era Trump
I mercati finanziari avevano già scontato tutti i potenziali positivi effetti dell’Agenda Trump ma non avevano minimamente preso in considerazione gli effetti collaterali negativi. La Fed, con un inaffidabile cambio di narrazione, diventa restrittiva alzando il target dell’inflazione attesa per il 2025, 2026 e 2027, dimostrando quanto siano poco credibili le dichiarazioni della banca centrale, che un giorno dichiara vinta la lotta all’inflazione e il giorno dopo ha dubbi evidenti che sia così. Il radicale cambio di narrativa della Fed in pochi giorni (da espansiva a restrittiva) la espone ad accuse di essere sempre stata una Fed democratica ma non repubblicana, e quindi politica. Questo evento apre la strada a possibili riforme mirate a ridurre la sua indipendenza, anche se rimane intatta la plateale dipendenza da Wall Street e dalle sue bolle speculative. Nel frattempo si apre lo scontro frontale sul debito pubblico. Nella prima settimana di Dicembre sono emerse preoccupanti news sulla traiettoria del deficit pubblico che possono compromettere i piani di espansione fiscale promessi. Il governo degli Stati Uniti, attraverso il Budget Office, ha pubblicato la dinamica della spesa di Ottobre e Novembre 2024, dalla quale si evince che c’è stato un balzo della spesa e del deficit del 64% rispetto al trend annuale rilevato fino a Settembre. Allo stato attuale, ci apprestiamo quindi a chiudere l’anno 2024 con un deficit di circa il 9% rispetto al 6,5% previsto. Ma quello che si delinea per il 2025 appare ancora più problematico, dato che gli impegni di spesa attualmente in essere, senza modifiche, proietterebbero un deficit al 13%.
A questo punto, le promesse di tagli alle imposte e di politiche fiscali espansive devono trovare qualcosa che possa finanziarle oppure possiamo attenderci un ulteriore allargamento del buco di bilancio. L’economia americana sembra avere totalmente riformulato le teorie Keynesiane, nel senso che paradossalmente una economia apparentemente in crescita necessita di sempre maggiore stimolo fiscale per sostenersi. Sembra inoltre probabile che, la sciagurata gestione Biden-Yellen del bilancio pubblico, si sia accentuata durante il periodo elettorale e possa essere mirata a lasciare seri problemi alla nuova amministrazione, con l’intento di compromettere i margini di manovra fiscale promessi. Quindi si è aperto uno scontro frontale sul debito e i Repubblicani hanno minacciato il blocco totale del governo e della spesa, non tanto per modificare la sua traiettoria, dato che Trump vuole cancellare ogni limite al debito (Debt Ceiling), ma per canalizzare la spesa pubblica sui programmi di governo della nuova amministrazione. Analizzando in dettaglio le componenti della spesa pubblica generata dalla politica Yellen-Biden, si può constatare che il 75% delle uscite è finalizzato a spesa sociale e assistenza, che costituisce il fondamento della politica economica post Covid, mirata a sostenere oltre 73 milioni di americani che non riescono a reggere il modello economico richiesto da Wall Street (monopoli tecnologici, concentrazione della ricchezza e debito al consumo esasperato per chi ne sta fuori). Trump sa benissimo che toccare questi sussidi sarà molto difficile e molto pericoloso per la tenuta dell’economia, che guarda caso cresce grazie a questo colossale intervento fiscale. Si preannuncia quindi una fase molto interessante per vedere come sarà possibile ridurre le imposte senza peggiorare il peggioramento in corso del deficit. Segnalo in anticipo che l’ufficio di statistica del governo Usa si appresta a rivedere i dati sul mercato del lavoro del 2024, dal quale sta emergendo che circa un milione di posti di lavoro creati non sono mai esistiti. In sostanza abbiamo mosso trilioni su dati totalmente falsi, esattamente come già accaduto nel 2023, dove 950.000 posti di lavoro sono spariti nelle revisioni. Per quanto riguarda la strategia commerciale su dazi al mondo intero, si preannuncia piuttosto difficile implementare tutto quanto previsto senza subire pesanti “rappresaglie” dai cinesi, che in queste settimane hanno iniziato a far capire dove possono colpire e fare danni significativi alle imprese americane. Il totale divieto all’export di metalli rari, dove la Cina ha il 90% dell’export globale, è di importanza strategica per la tecnologia e le applicazioni militari Usa, e segnala un deciso cambio di passo che potrebbe essere un impedimento a uno scontro frontale con i cinesi. Le alternative a tali componenti per ora non esistono (la Cina controlla il 90% della produzione) e un recente studio di S&P evidenzia che ci vorrebbero circa 15 anni per trovare fonti alternative. È possibile che gli Stati Uniti possano quindi essere più prudenti con la Cina e più aggressivi con Europa, Canada e Messico sui dazi, questo almeno inizialmente. Credo quindi che la partenza della nuova amministrazione sarà piuttosto problematica per i mercati, dato che l’amministrazione Biden-Yellen lascia alle spalle una situazione drammatica, sia per la dinamica del deficit sia per la credibilità delle statistiche macroeconomiche degli Stati Uniti. Non è da escludere che la nuova amministrazione possa ammettere che eredita una situazione non veritiera sul mercato del lavoro e sull’economia.

E la Fed?

Passando alle strategie della Fed, non si riesce a capire cosa abbiano in testa di fare in un contesto dove la spesa pubblica è fuori controllo, il processo disinflazionistico si è fermato e rischia di ripartire, ma la liquidità mondiale in dollari si contrae e le aste del tesoro assistono sempre più al calo di partecipazione di Giappone Cina ed emergenti, principali sottoscrittori di debito Usa, che ora preferiscono comprare Oro.

A complicare la situazione abbiamo il Shadow Banking System che è letteralmente piegato sotto le perdite accumulate negli ultimi anni, ma che sono opportunamente “congelate” nei bilanci in attesa di tempi migliori (sempre che quelli migliori non siano già alle spalle). Le banche Usa non sono nella condizione di espandere il bilancio e il credito all’economia è praticamente in stallo, tanto che attualmente solo il Private Credit riesce a fornire un supporto al sistema, ma tendenzialmente solo nel segmento più speculativo del debito. Ricordo infatti che il Private Credit eroga credito con rating medio CCC. La Fed dovrebbe quindi ridurre i tassi ma come può farlo se la politica fiscale si fa sempre più espansiva e l’inflazione risale da due mesi? Questo è il motivo per il quale la Fed ha fermato la riduzione dei tassi ma sarà comunque costretta in breve tempo a fornire liquidità al sistema per evitare una crisi finanziaria. Il problema è che non sapremo probabilmente attraverso quale canale questo avverrà. Potrebbe essere attraverso un ulteriore aumento delle riserve bancarie, oggi a 3,5 trilioni vs uno stock di 1,5 Trilioni nel 2019, oppure tramite una Term Auction Facility o una Term Securities Facility. Il problema è che però tali interventi sono “term”, cioè a breve scadenza e non risolvono il problema. È quindi altamente probabile che avremo una interruzione del Quantitative tightening (QT) e un ulteriore aumento delle riserve bancarie a oltre 4 Trilioni. Ma nonostante questo i fondamentali dello Shadow Banking System, che si trova da due anni in una Balance Sheet Recession, non sono destinati a migliorare e l’intero settore rimane una seria minaccia alla stabilità finanziaria.

Nel frattempo emerge da un audit sull’operatività della Fed condotto dal US Government Accountability Office (GAO), che durante la crisi dei Repo del 2018/2019, la banca centrale ha dovuto intervenire con linee di credito di 4,5 Trilioni alle istituzioni finanziarie per evitare un crack stile 2008. A questo punto mi chiedo come siamo messi dopo la crisi Covid se già prima eravamo in questa situazione. Un altro interessante studio (Levy Economics Institute – Working Paper N 698) evidenzia come, durante la crisi del 2008, l’intervento complessivo della Fed non è stato di 2,5 Trilioni come dichiarato ufficialmente, ma di 29 Trilioni! Credo sia abbastanza evidente che nessuno di noi può dire di sapere esattamente cosa sta accadendo al sistema finanziario americano e nessuno può dire di sapere come è la reale situazione delle cose, dato che sul bilancio della Fed e sulla sua operatività non c’è nessuna trasparenza. In ogni caso è evidente che se trasparenza non c’è non è certo per nascondere cose che vanno benissimo. A questo si aggiungono sistematicamente dichiarazioni contraddittorie sulla politica monetaria, restrittiva da una parte (tassi) ma espansiva dall’altra (riserve bancarie), e sulle previsioni dell’inflazione attesa.

Quello che appare evidente è che il sistema necessita di un costante bailout, a volte anche occulto, o attraverso la politica fiscale (sempre espansiva) o attraverso quella monetaria tramite il bilancio Fed, che da una parta toglie ma dall’altra parte da. Poco conta infatti se tu fai il QT ed aumenti i tassi, ma poi aumenti la liquidità nel sistema tramite riserve bancarie esplosive e linee di credito straordinarie. Se siamo al punto che il sistema capitalistico per poter reggere deve avere un bailout giornaliero, è sempre più evidente che non funziona più come dovrebbe funzionare, indipendentemente dall’andamento dell’indice SPX.

Dall’America First alla stagnazione

Un altro evidente aspetto critico nel quale ci troviamo a operare è la totale perdita di contatto del settore finanziario con la sostenibilità di certe politiche fiscali o monetarie. Il paradosso è che i mercati sono molto propensi a punire la Francia, l’Italia o la Cina per politiche fiscali non adeguate ma non si fanno molte domande sulle politiche fiscali degli Stati Uniti. Mentre si ritiene che Europa e Cina siano aree a rischio per errori di politica economica o fiscale, nessun dubbio sembra circolare tra gli operatori di Wall Street che le politiche Usa abbiano problemi di sostenibilità. E non mi si venga a dire che tali dubbi vengono cancellati solo perché gli Stati Uniti hanno il Dollaro. In realtà abbiamo subito sistematiche gravi crisi globali, sempre “targate” Usa, senza che il Dollaro abbia evitato all’economia americana di finirci dentro malamente. Ora, quello che a me appare sempre più chiaro, è che l’American First proclamato da Trump esiste già da anni nella finanza globale, dato che l’America oggi succhia tutto il risparmio mondiale per finanziare il proprio debito pubblico e privato. La posizione finanziaria netta con l’estero è in deficit record del 90% del Pil Usa ed è ora allo storico livello del 10% del Pil mondiale, mai raggiunto nella storia. Gli Stati Uniti detengono il 70% della capitalizzazione azionaria mondiale grazie all’afflusso di 16 trilioni di Dollari di investimenti dall’estero su equity Usa, detiene il primato mondiale nel Private Equity grazie prevalentemente ai capitali esteri e ha il 40% di quota di mercato nel settore globale dell’asset management, anche questo grazie ai risparmi giapponesi ed europei che si riversano nei fondi d’investimento Usa. Se America First significa che si punta anche a ridimensionare l’attività manifatturiera del resto del mondo, mi chiedo cosa può rimanere fuori dagli Stati Uniti. La risposta è molto semplice: la stagnazione. Storicamente gli investitori hanno sempre svolto il compito di premiare le politiche virtuose e penalizzare quelle non sostenibili, esercitando un fondamentale ruolo di regolatore del sistema. Oggi appare evidente che questa regola non vale più per gli Stati Uniti ma è ancora in vigore per il resto del mondo. Il paradosso attuale è che continuando a premiare chi si inoltra in politiche sempre più spregiudicate, lo si induce ad essere sempre più spregiudicato, gettando le basi per una futura inevitabile e profonda crisi. L’attuale dinamica in corso sembra confermare quindi che non è più il capitale che regola il sistema ma è il sistema che regola il capitale. Questo cambiamento di paradigma non consente più di regolare gli eccessi e tende ad esasperare le bolle finanziarie e l’approccio puramente speculativo. Tutti i gestori di asset finanziari sembrano replicare la fila interminabile di alpinisti sotto la cima dell’Everest nel tentativo di conquistare la vetta, consapevoli di essere tutti affollati nella “zona della morte” oltre gli 8000 metri. Questo comporta la fine della diversificazione, l’accentuarsi della concentrazione di rischio, l’approccio passivo diventa l’unica soluzione e la ricerca di decorrelazione si fa impossibile. L’attività di portfolio management è, in questo contesto, seriamente compromessa o addirittura inesistente. Se questo è vero, come credo, il rischio di sistema non è mai stato così elevato nella storia e mai così concentrato. A mio parere, se nel 2008 l’intervento della Fed si è scoperto essere stato di 29 trilioni di USD, rispetto ai 2,5 dichiarati, sono propenso a stimare il prossimo intervento in quasi 100 trilioni. Ma a quel punto occorrerebbe chiedersi cosa può accadere al Dollaro, all’Oro e all’architettura finanziaria occidentale.

Che 2025 aspettarsi

Tornando ai problemi più immediati, credo che il 2025 sarà un anno piuttosto problematico per la Fed, che si troverà a gestire una situazione complicata. Gli stimoli fiscali non sono favorevoli ai bond, ma nel contempo nessuno vuole che i tassi salgano. Ma ridurre i tassi o iniettare liquidità con le attuali politiche fiscali in corso rischia di far ripartire l’inflazione. Nessuno vuole l’inflazione ma neppure si vuole frenare la spesa pubblica né tantomeno l’economia, che dipende prevalentemente dalla politica fiscale. Sarà un bel problema cercare di tenere tutto sotto controllo. È molto probabile quindi che i tassi sui decennali statunitensi possano salire oltre il 5% e indurre la Fed ad interrompere il QT e iniettare liquidità. In ogni caso per il debito pubblico non ci sono progetti mirati a ridurlo, quindi l’inflazione è destinata a ripartire, salvo una crisi finanziaria. La potenziale “guerra commerciale” ha l’elevata probabilità di accentuare i problemi anziché ridurli. Sebbene il consenso vede l’indice SPX salire a 7000 nel 2025, le incertezze su tassi, debito, dazi e inflazione non sembrano facilitare questo obiettivo ma anzi complicarlo. Le borse possono rimanere inizialmente in un side market nella migliore delle ipotesi se supportate dall’interruzione del QT, ma l’incertezza sulla direzione dei tassi rimarrà un elemento negativo assieme alla stagnazione globale, che è ormai strutturale, e per le incertezze legate alle politiche di Trump. Le prospettive per i mercati azionari non sono positive, una nuova età dell’oro sembra già certa e scontata, ma è molto probabile che possa iniziare invece una lunga fase di discesa. I bond possono fare bene solo se l’economia Usa rallenta o va in recessione e l’inflazione scende. Trump non vuole ovviamente la prima cosa ma vuole però la seconda. Sarà difficile averle tutte e due, salvo l’introduzione del controllo della curva dei rendimenti come in Giappone, ma a quel punto sarà la morte del Dollaro come divisa di riserva. I bond Usa sono quindi esposti a scenari tendenzialmente negativi e chi è bullish sui bond non può essere positivo anche sull’economia, così come chi è negativo sui bond non può essere positivo sulla borsa. L’Oro può avviare una pausa al rialzo per una eventuale pressione al rialzo sui tassi decennali Usa ma non sembra a rischio di interrompere il movimento rialzista, che rimane supportato da incertezza globale, rischi d’inflazione, debito fuori controllo, probabile interruzione del QT e conseguente rischio di tenuta del Dollaro.

In ogni caso, il punto di riferimento fondamentale rimane il contesto descritto nella prima parte di questa nota, che evidenzia un colossale problema strutturale di sostenibilità a termine delle politiche in corso. Il fatto che la FED sia costantemente impegnata in politiche di supporto (anche occulte) e l’intervento fiscale non può fermarsi, dimostra che l’infrastruttura su cui si basa il sistema è in crisi. Il problema è che la sua sostenibilità dipende molto dalla prosecuzione ad oltranza delle politiche (fiscali e monetarie) che lo sostengono. Le politiche che sembravano in apparenza la soluzione sono ora diventate il problema da risolvere.