L’Europa deve imparare dalle crisi precedenti

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Per prevenire un’ingente crisi del debito sarà necessario un massiccio intervento dei governi a supporto della crescita economica. Probabilmente gli Stati Uniti stanno andando in questa direzione e l’Europa questa volta deve vincere le sue resistenze interne.

L’aumento del deficit di bilancio, e quindi del debito pubblico, deciso in quasi tutti i paesi sviluppati per contrastare il crollo dell’attività economica nella primavera scorsa, preoccupa giustamente molti osservatori. Tuttavia queste legittime preoccupazioni non devono farci sottovalutare le difficoltà più immediate, che dobbiamo necessariamente superare per poterci concentrare sul medio termine.

Il pericolo imminente è rappresentato dalla riduzione della portata dei piani di rilancio, in nome dell’austerità di bilancio in Europa o a causa dello stallo politico negli Stati Uniti. Per questo motivo, le due regioni difficilmente riusciranno a evitare il destino che è toccato al Giappone o a scongiurare una crisi di fiducia, se sottovalutano questa minaccia.

Non bisogna commettere errori di analisi: se il Giappone non si è mai completamente ripreso dalla crisi immobiliare del 1990 e se dopo la grande crisi finanziaria del 2008 l’Europa ha accumulato un considerevole ritardo della crescita rispetto agli Stati Uniti, la causa è da attribuire alle misure di rilancio troppo modeste. Il risultato è che il Giappone e l’Europa si sono dovuti accontentare di una crescita debole, senza compiere reali progressi nella riduzione del loro indebitamento.

Questo fenomeno si spiega facilmente: una crisi finanziaria spinge il settore privato a risparmiare (o a cercare di diminuire i debiti, che in sostanza è la stessa cosa). Di conseguenza, se il settore pubblico non compensa questo movimento di risparmio con uno opposto di indebitamento, il paese complessivamente si ritrova con un forte eccesso di risparmio netto, mentre i consumi e gli investimenti soffrono. In un’economia così sofferente, le importazioni si riducono, generando un grande surplus di partite correnti. Il paese sembra ricco, ma in realtà si indebolisce per mancanza di crescita. Allo stesso tempo, l’eccedenza di risparmio spinge al ribasso i tassi di interesse e al rialzo i prezzi degli asset finanziari. I mercati finanziari del paese si apprezzano a livelli record, con uno scostamento sempre più marcato dalla realtà economica vissuta dai cittadini, amplificando la percezione di un allargamento del divario tra lavoratori dipendenti e investitori. In questo modo, una risposta apparentemente “virtuosa” alla crisi finanziaria finisce per acuire le tensioni sociali e minare la credibilità dei dirigenti politici.

Oggi, nonostante il sostegno finanziario messo in campo dai governi, i privati preferiscono mantenere un tasso di risparmio molto elevato a causa delle incertezze sul futuro. Una fortuna per i mercati finanziari, mentre i consumi vengono direttamente colpiti. Le imprese hanno ricevuto aiuti finanziari considerevoli, ma li conservano per mancanza di visibilità sul futuro, oppure ne approfittano per ridurre il proprio indebitamento.

Contrariamente al post-2008, questa volta si può sperare nell’intervento di un deus ex machina prima che si consumi la tragedia, sotto forma di un vaccino in grado di assicurare un rapido ritorno della fiducia. In questo scenario, l’eccesso di risparmio causato dalla pandemia verrebbe incanalato in consumi e investimenti in conto capitale, cambiando in modo sostanziale la natura della ripresa economica. In questo contesto si può anche immaginare un rapido riassorbimento della capacità produttiva in eccesso accumulata in questi mesi, che aprirebbe finalmente le porte a una ripresa dell’inflazione.

Tuttavia, anziché scommettere su un’imminente soluzione miracolosa, i governi dovrebbero sostenere attivamente l’economia spendendo il denaro che il settore privato non può o non vuole spendere.

Negli Stati Uniti un nuovo piano di rilancio è frenato dal calendario elettorale, che impedisce il formarsi di un consensus interno al Congresso su misure politiche di interesse nazionale. Tuttavia il programma di Joe Biden consiste precisamente nell’andare ben oltre il sostegno finanziario ai cittadini, con investimenti pubblici su vasta scala sotto forma di un pacchetto di stimoli fiscali da 1.500 miliardi di dollari. Sarebbe davvero un peccato se l’Europa non riuscisse a venire rapidamente a capo delle resistenze dei famosi paesi “frugali”, rassegnandosi ad alleggerire un Recovery Fund da 750 miliardi di euro già troppo modesto, soprattutto adesso che la seconda ondata pandemica ostacola la tanto sperata riapertura delle economie.

Il sovraindebitamento è sicuramente un problema serio che non può essere risolto sacrificando il denominatore del rapporto debito/PIL. La Cina l’ha capito, gli Stati Uniti forse lo capiranno a breve. È giunto il momento che l’Europa impari la lezione dal passato.