Le due anime della BCE (e dell’eurozona)

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Il meeting della BCE del 10 giugno presenta non poche difficoltà per la Presidente Lagarde. Da un lato, è innegabile che la situazione economica dell’Eurozona sia in netto miglioramento. Le vaccinazioni procedono spedite a un ritmo di 8.000 per milione di abitanti nei grandi paesi (Germania, Francia e Italia), alla pari con il Regno Unito e più rapide che negli USA (5.500 per milione).

I vaccini aiutano la normalizzazione delle attività che richiedono maggiore interazione, e i primi segnali sono chiari: il PMI dei servizi di maggio ha registrato un incremento di quasi 5 punti rispetto ad aprile. Questo non deve sorprendere: dopo tutto, è quello che è già successo in USA e Regno Unito, che sui vaccini sono un paio di mesi in avanti rispetto all’Europa.

I servizi rappresentano oltre il 70% del PIL dell’eurozona. Appare quindi molto probabile che la BCE decida di rivedere al rialzo le stime di crescita rispetto a marzo (PIL: +4,0% nel ’21, +4,1% nel ’22, +2,1% nel ’23). Sarà sufficiente una crescita ben sopra il 4% nei prossimi due anni per far tornare l’inflazione al 2% nel medio periodo? Questo sembra poco probabile: a marzo, la BCE prevedeva un’inflazione dell’1,5% nel ’21, 1,2% nel ’22 e 1,4% nel ’23. Qualche decimale in più di PIL non sarà probabilmente sufficiente a riportare l’inflazione al 2% nel medio periodo. Inoltre, le pressioni di breve periodo che vengono dalle commodities e dagli aggiustamenti di prezzi dovuti alle riaperture non hanno nessun impatto sull’inflazione di medio periodo, che dipende da fattori globali, aspettative di inflazione, pressioni salariali.

Due scuole di pensiero a confronto

Quindi, che cosa dovrebbe fare la BCE? Qui le interpretazioni divergono. Da un lato, una banca centrale che vede l’inflazione sotto il target non dovrebbe neanche prendere in considerazione l’idea di restringere le condizioni monetarie (nel caso della BCE, ridurre gli acquisti nel PEPP, ad esempio). Questo perché se l’inflazione non raggiunge il target nel medio periodo nonostante lo stimolo in essere, la banca centrale dovrebbe pensare a fare ulteriore stimolo monetario, non certo a ridurre gli acquisti.

D’altro canto, una posizione più ortodossa direbbe che il livello del PIL e l’inflazione prevista nel medio periodo si normalizzeranno solo nel 2022-2023. A quel punto, secondo un approccio più prudente la politica monetaria dovrebbe essere già neutrale. Quindi, è necessario iniziare la normalizzazione adesso, per evitare di agire troppo in ritardo. Pertanto, la BCE dovrebbe indicare una riduzione degli acquisti nel PEPP al più presto. Chi ha ragione? Entrambe le posizioni sono difendibili. Molte banche centrali sono state e si trovano tuttora di fronte a una scelta simile. Le decisioni in politica monetaria sono dettate dal peso specifico che l’inflazione ha per la banca centrale rispetto ad altri fattori, tra cui la stabilità finanziaria. Una banca centrale che non vuole correre rischi in questa direzione probabilmente restringerà la politica monetaria quando l’inflazione non è ancora al target, agendo in maniera preventiva. Viceversa, una banca centrale che ritiene che i benefici di una politica espansiva siano molto maggiori rispetto ai rischi sulla stabilità finanziaria, terrà la politica monetaria espansiva per molto tempo, anche a costo di un’inflazione temporaneamente sopra il suo obiettivo. Questo è quello che sta facendo la Fed, ad esempio.

Per quanto riguarda la BCE, è normale che il dibattito tra “falchi” e “colombe” vada a intensificarsi man mano che l’economia migliora. Bisogna però tenere a mente che strutturalmente l’eurozona è meno propensa a creare inflazione di quanto non siano gli Stati Uniti (basta guardare al trend di inflazione di tipo core degli ultimi 10 anni: 1,6% in USA e poco meno di 1,2% in eurozona). Inoltre, la posizione ciclica dell’eurozona – seppur in miglioramento – è chiaramente indietro rispetto agli Stati Uniti, dove lo stimolo fiscale è stato molto più grande. Appare quindi del tutto improbabile che la BCE voglia mandare un segnale nella direzione del tapering prima della Fed. Se lo facesse, con ogni probabilità l’euro si rafforzerebbe, cosa che chiaramente la BCE non può permettersi in questo frangente. Pertanto, al momento l’unica strategia per la Lagarde appare quella di cercare di contenere il dissenso interno e di continuare a posticipare un annuncio di un tapering degli acquisti fino alla seconda metà dell’anno, probabilmente dopo la conclusione della Strategy Review prevista per l’estate.

Ciò detto, è inevitabile che il consenso che ha prevalso nel consiglio della BCE durante i giorni più neri della pandemia si trasformi in dissenso sempre più crescente con le prospettive dell’eurozona che migliorano. La stessa cosa succederà tra i ministri delle finanze quando si tratterà di dover ridisegnare le regole fiscali, sospese fino al 2022. In queste complicate discussioni di politica monetaria e (soprattutto) fiscale si deciderà il futuro dell’eurozona. Un ritorno al paradigma del rigore e dell’austerità appare francamente poco probabile visto il trend attuale ma c’è da scommettere che i “falchi” venderanno cara la pelle.