Il caso Shell: cosa comporta una sentenza per le compagnie petrolifere e per i cambiamenti climatici

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Il 1996 ha rappresentato uno spartiacque per l’industria del tabacco, quando Grady Carter, ex controllore aeroportuale e fumatore per oltre 43 anni, si ammalò di cancro ai polmoni e vinse la prima causa individuale intentata contro un grande produttore di tabacco.

Nel giorno della sentenza, il prezzo di questa commodity crollò drammaticamente –cedendo il 10% in un giorno – bruciando miliardi di dollari investiti nel settore.

Nella giornata del 26 maggio, le compagnie petrolifere hanno subito una sconfitta molto simile a quella citata, anche se nell’ultimo decennio c’erano stati comunque dei tentativi in questa direzione. Infatti, un tribunale olandese ha stabilito che Royal Dutch Shell deve “limitare i volumi aggregati di CO2 emessa nell’atmosfera (Scope 1,2 e 3), così che nel 2030 i suddetti volumi si saranno ridotti del 45% rispetto ai livelli del 2019”.

Tuttavia, a differenza di quanto si è verificato nell’industria del tabacco, il azioni delle azioni della Shell non ha subito significativi spostamenti. Eppure, questa sentenza è stata alquanto inaspettata e sembra impossibile che il mercato avesse già scontato con sufficiente anticipo questa eventualità. Ciò suggerisce due punti di vista alternativi: o il mercato ritiene che quanto prevista dalla sentenza si realizzerà (il che è assolutamente possibile) oppure ritiene che le ripercussioni di questa saranno minime.

Prima di dare un nostro giudizio, è bene mettere in risalto alcune affermazioni importanti contenute nella sentenza, che ci hanno spinto a prestare molta attenzione alla vicenda.

Domanda e offerta

La prima di queste affermazioni rimanda al fatto che il tribunale sembra accettare quella che è stata solo una tesi di minoranza, sia nella letteratura accademica che sui mercati finanziari: una compagnia che riduce unilateralmente l’offerta di petrolio ne cambierà anche il quantitativo consumato a livello globale.

È storicamente accettato (giustamente, secondo il nostro parere) che costringere una compagnia petrolifera a smettere di produrre greggio – senza modificarne la domanda o senza cambiare l’intera policy ambientale – crea semplicemente un’occasione per un’altra società di inserirsi nel posto vacante e produrre greggio al posto della prima. Il tribunale, tuttavia, ha rigettato questa tesi e questo potrebbe portare a sviluppi importanti in futuro.

La seconda affermazione riguarda il fatto che Shell, stando a quanto afferma la sentenza, può essere considerata responsabile per i danni provocati dal consumo dei suoi prodotti anche al di fuori dei Paesi Bassi. La questione davvero significativa è che il giudice ha accettato questo punto, nonostante un determinato impatto ambientale non possa essere direttamente attribuito a un barile di petrolio prodotto da Shell.

Dato che tra il 2018 e il 2020 il numero di processi su questioni ambientali è più che raddoppiato, se entrambi i punti visti sopra saranno accettati anche da altre giurisdizioni, visto il numero di casi giudiziari contro le grandi compagnie petrolifere in tutto il mondo, le conseguenze potrebbero essere significative. Pertanto, il fatto che il mercato abbia considerato la sentenza su Shell come un “non-evento” è decisamente sorprendente.

Gli Accordi di Parigi e il prezzo del petrolio

Ma quali sono le ripercussioni che la sentenza avrà direttamente sui cambiamenti climatici? A nostro avviso, queste non saranno necessariamente un punto a favore per l’ambiente; piuttosto, riteniamo che sia necessario che tutto il settore petrolifero si allinei agli Accordi di Parigi, ma questo lo si può ottenere solamente passo dopo passo, attraverso modifiche della policy, cambiamenti sul lato della domanda e un rinnovamento del sistema energetico a livello globale. Ma obbligare un’impresa a fare tutto questo attraverso una sentenza giuridica porterà solo un aumento dei prezzi e mancati incassi, sempre che questa diventi effettiva.

Pertanto, secondo il nostro punto di vista, i tribunali non costituiscono la via migliore per superare la crisi climatica; anzi, perseguire le politiche ambientali in questo modo rischia di scaricare i costi della transizione energetica sulle spalle dei più poveri, semplicemente attraverso un aumento del prezzo; mentre invece sarebbe più opportuno perseguire una transizione giusta ed equa, che suddivide i costi in base a chi ha maggiori possibilità di sostenerli. Tutto questo dà un ruolo ancora più importante alla prossima conferenza sul clima COP26 e alla necessità che i governi facciano di più sul piano ambientale. Ma attendere un cambiamento di policy non mette in salvo il settore petrolifero, che, a nostro avviso, deve rispondere alla crescente pressione non solo nei tribunali, ma da ogni angolo della società.