Il ritorno del Covid mette in difficoltà l’Asia

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I colloqui di pace russo-ucraini, finora in una situazione di stallo, hanno fatto sperare (molto timidamente) in qualche progresso. Secondo vari osservatori, è a questo cauto ottimismo che si deve la piccola boccata d’aria dei mercati europei, in ripresa dopo un lungo periodo di instabilità.

È proprio così? Sicuramente le aspettative legate alla fine della guerra possono aver influito, ma non si sa fino a quale punto, data la precarietà della situazione. Più facile che il moderato rimbalzo della scorsa settimana sia un normale assestamento dopo i ribassi dell’ultimo mese: nelle settimane precedenti la discesa dei mercati è stata molto veloce e violenta, e un tentativo di recupero era abbastanza prevedibile.

Non dobbiamo, dunque, farci troppe illusioni, anche perché un accordo tra Russia e Ucraina non sembra così vicino, ed eventuali progressi nei colloqui (che finora non si sono registrati) non significherebbero lo stop al conflitto. Per questo motivo non possiamo escludere nuovi ribassi nel corso del prossimo mese.

Il ritorno del Covid

Al mercato non piace l’incertezza, e questo periodo – contraddistinto da guerra, aumenti generalizzati nei prezzi delle materie prime e incognite legate al ritorno del Covid – non infonde certo sicurezza agli investitori.

Non per niente, anche quelle piazze finanziarie che fino a poco tempo fa tenevano ora sono in flessione. Hanno perso terreno Stati Uniti e Borse asiatiche – soprattutto la Cina, dove si riprende a parlare di lockdown per nuovi focolai del virus: le nuove misure restrittive nell’area di Shenzen – per inciso, la città in cui hanno sede Huawei, Tencent e Foxconn,azienda chiave nella catena degli iPhone – hanno causato un’ondata di panic selling in tutto il paese. Particolarmente colpiti i tecnologici, anche a causa della chiusura degli stabilimenti che forniscono hardware all’Occidente.

Ai nuovi lockdown cinesi sembra legata anche la discesa del gas, calato del 30% dopo aver raggiunto i massimi, e del petrolio, sceso a 100 dollari dal picco di 130. La reazione dei mercati è soprattutto psicologica, dato che l’area di Shenzhen è una regione di “appena” 20 milioni di abitanti nel nord del paese. Una cifra enorme per gli standard italiani o europei, ma molto marginale rispetto al miliardo e 800 milioni di abitanti della Cina. I timori sono legati ai rischi di ritorno alle restrizioni e al rapido rialzo dei casi in Germania.

Nonostante questo, sembra che la reazione dell’Europa al rischio di una nuova ondata possa divergere in modo abbastanza forte dalle ormai tradizionali politiche di contenimento. I governi sembrano orientati a una graduale riapertura, strategia derivante dalla fiducia nell’efficacia dei vaccini, che hanno raggiunto la gran parte della popolazione del continente.

La Cina invece prosegue nella classica politica di lockdown severissimi – anche se, come abbiamo visto, nel mondo di oggi è molto difficile bloccare la propagazione di un virus infettivo come il Covid.

Colpa della guerra? La speculazione gioca un ruolo importante

Il timore di una nuova ondata di casi legati alla pandemia ha influito anche sul ribasso dei prezzi delle materie prime, a cui potrebbe anche concorrere un aumento della produzione da parte dei paesi Opec, ventilato dagli Emirati Arabi Uniti. La decisione potrebbe dare un sollievo psicologico, anche se è chiaro che i rincari dipendono da altro.

Dipendono, cioè, dalla forte speculazione portata avanti in queste settimane. Infatti, la finanziarizzazione dell’economia ha creato un problema enorme: oggi, a dettare le regole, è il mondo anglosassone, che lascia un ampio margine di manovra ai fondi, liberi di speculare in maniera estrema. Una statistica ci dice che per ogni barile prodotto ne vengono scambiati 20 in Borsa.

La speculazione potrebbe essere fermata solo da un accordo tra i principali paesi del mondo, in grado di fissare un tetto al prezzo del greggio o del gas. Ma questa eventualità è difficilissima, ed è ancora più improbabile in un periodo colmo di tensioni come quello che stiamo vivendo.

A meno che si muovano gli Stati Uniti. Washington, pur autosufficiente dal punto di vista energetico, comincia a registrare problemi per gli aumenti di gas e petrolio, aumenti che suscitano proteste fra famiglie e imprese: il greggio a 100 dollari fa male anche al consumatore americano. Proprio a pochi mesi dalle elezioni di mid-term. Per questo motivo, gli Usa potrebbero cercare una via per contribuire a un ribasso del petrolio sotto i 90 dollari, che contribuirebbe a minimizzare gli impatti del caro-carburante sull’economia reale.

Cosa scegliere?

In questa situazione, che vede l’economia navigare a vista, come dovrebbe operare chi vuole entrare nei mercati?
Una strategia possibile contempla la scelta di settori difensivi, come per esempio le utility (con l’unica incognita rappresentata dal possibile rialzo dei tassi interesse). Abbastanza sicuri i titoli legati alla trasformazione energetica, che certamente riceveranno una spinta molto forte dalla transizione ecologica.

In linea concettuale, potrebbe rivelarsi proficua la scelta dei titoli finanziari, che però sono a rischio boomerang in caso di recessione. Consigliabile anche un’esposizione moderata sulle materie prime.

Poco interessanti invece i tecnologici, che risentono – come anticipato – del blocco di Shenzhen e dei cali del Nasdaq.
In generale, alla luce dell’importante calo nei prezzi di Borsa, suggeriamo un approccio di avvicinamento molto graduale ai mercati per la costruzione di un’esposizione azionaria diluita nel tempo: laddove i mercati dovessero affrontare nuove ondate ribassiste, questo approccio consentirebbe di entrare anche su valori inferiori rispetto a quelli attuali, senza pregiudicare così l’opportunità di investire su prezzi sempre più a sconto rispetto al valore delle società oggetto di investimento.