ESG e istituzionali: la gestione attiva può migliorare la sostenibilità del portafoglio mantenendo un elevato profilo rischio/rendimento?

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La pratica comune di valutare i gestori di portafoglio rispetto a un benchmark ha effetti concreti.

Come infatti A. Kashyap et al. sottolineano nel loro articolo “The Benchmark Inclusion Subsidy”, il benchmarking genera una domanda aggiuntiva e anelastica di attività all’interno del benchmark. La distorsione appare evidente perché i gestori sono incentivati a detenere titoli di aziende nel benchmark, non solo per il profilo di rischio di tali aziende ma proprio perché parte del benchmark. Ciò genera un sussidio da parte degli investitori istituzionali a favore delle aziende del benchmark, alterando il costo del capitale.

Ne consegue che qualsiasi cashflow proveniente da una acquisizione o da un progetto di un’impresa ricompresa nel benchmark ha, per l’azionista, un valore attuale superiore a quello che avrebbe se l’azienda non fosse inclusa in un benchmark. Lo stesso fenomeno di amplificazione si osserva nella valutazione di fusioni e acquisizioni, spin-off e IPO. Se ciò fosse confermato, capovolgerebbe il risultato standard della finanza aziendale secondo cui il valore di un investimento è indipendente dall’entità che lo valuta.

Come osservato da John Authers in un recente articolo (https://www.bloomberg.com/opinion/articles/2022-01-24/our-stock-market-bubble-biases-deserve-the-closest-scrutiny), le aziende a cui sono garantiti flussi continui di capitale provenienti dai fondi indicizzati possono permettersi di essere molto più inclini a pagare un sovrapprezzo per le acquisizioni; dopotutto, gli investitori dovranno ancora comprare le loro azioni, in quanto parte di un benchmark replicato passivamente.

Alcuni manager attivi potrebbero non volere o essere invitati a non deviare troppo dall’indice, per evitare risultati difficilmente spiegabili; nell’ottica di una adeguata diversificazione, un manager attivo che pensasse, per qualsiasi ragione, che le aziende Apple, Tesla o Microsoft siano le migliori opportunità, ma non riflesse nelle valutazioni di mercato, difficilmente potrà far fruttare quell’intuizione rispetto all’indice, a meno che non acquisti una quantità eccessivamente importante di quelle stesse azioni.

Nell’ultimo decennio, i flussi verso strategie passive e le iniezioni di capitale da parte delle banche centrali nei mercati hanno sostenuto i flussi verso i mercati azionari, riducendone artificialmente la volatilità, e distorto i prezzi relativi delle azioni rendendo gli indici sempre più concentrati. Il risultato è stato un’epocale sottoperformance del value rispetto al (costoso) growth. Le dimensioni delle prime cinque società dell’MSCI World si sono ulteriormente amplificate a causa del dominio del settore tecnologico, dei tassi bassi e dell’enorme liquidità: a fine 2021 hanno infatti superano i 10 trilioni di dollari di capitalizzazione di mercato.

Con il passare del tempo, la “moda passiva” ha accumulato rischi sistemici amplificati e ha reso gli investitori attivi una buona fonte di diversificazione, in particolare contro selloff futuri. Nel tempo, infatti, il rischio di concentrazione si materializza in un’instabilità sistemica realmente messa alla prova dal rallentamento del ciclo economico. Rialzo dei tassi, inflazione ai massimi storici degli ultimi quaranta anni e inversione della correlazione tra obbligazioni e azioni stanno mettendo a dura prova i paradigmi di investimento consolidati nei primi decenni del terzo millennio.

A questa crescita si è accompagnata però una crescita epocale: il filtro ESG nelle valutazioni delle aziende. Nel 2020 gli investimenti sostenibili hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 35.000 miliardi di USD, con Europa (12.000 miliardi di USD) e USA (17.000 miliardi di USD) che guidano la classifica.

Tra le strategie utilizzate spiccano l’integrazione ESG (25.000 miliardi) e il negative screening (15.000 miliardi). Se guardiamo però ai tassi composti di crescita, l’integrazione dal 2016 è aumentata del 25% su base annua, mentre il negative screening è rimasto fermo (0%).

Se è vero che l’esclusione può essere considerata già una forma di engagement e di selezione attiva, in fase di costruzione di portafoglio gli investitori non potranno più affidarsi esclusivamente a esposizioni tradizionali al beta per ottenere rendimenti accettabili.

Come evidenziato da Mercer (Metamorphosis – Themes and Opportunities 2022), la gestione attiva e l’utilizzo di posizioni strategiche di lungo termine può aiutare a ottenere gli obiettivi di investimento prefissati.

Per quanto attiene gli investitori istituzionali italiani, la pandemia ha avuto un ulteriore impatto sulla sensibilità agli aspetti ESG. Il mercato, infatti, considera sempre di più gli impatti sociali e ambientali dei prodotti finanziari e degli approcci di investimento, oltre alle performance finanziarie. Secondo la terza indagine “Esg ed Sri, le politiche di investimento sostenibile degli investitori istituzionali italiani”, i gestori hanno dichiarato di voler investire maggiormente in quest’ambito attraverso i fondi d’investimento alternativi (il 91% dichiara che aumenterà l’esposizione), ma anche con fondi d’investimento tradizionali (34%), Fia immobiliari (20%) ed Etf (20%).

Il 56% degli enti ha dichiarato di adottare una politica d’investimento sostenibile. Ma tra quelli che non lo fanno, nel 97% dei casi il tema è stato già affrontato a livello dirigenziale e verrà implementato in futuro. Tema tanto più pressante data l’accelerazione normativa indotta dalla regolamentazione europea. Tra le strategie d’investimento che emergono maggiormente, prevale il criterio delle esclusioni (67%). Ma si fa notare l’avanzata dell’impact investing, una politica che nel 2021 è stata adottata dal 48% degli istituzionali italiani.

Al momento i dati sulla ripartizione tra attivo e passivo non sono noti, in particolare per quanto riguarda la componente azionaria dei portafogli istituzionali, ma è ragionevole stimare che l’approccio passivo abbia superato quello attivo e sia in continua crescita.

È quindi possibile, per un investitore istituzionale, proteggersi dai rischi evidenziati in precedenza, migliorare il profilo ESG del proprio portafoglio e al contempo mantenere rendimenti risk adjusted simili?

In una nostra analisi, recentemente pubblicata sul Journal of risk management for financial institutions, abbiamo verificato la possibilità di migliorare il profilo ESG di un portafoglio (per un determinato rating provider) preservandone il livello di rendimento risk-adjusted, e senza alterare in modo significativo altre metriche rappresentative[1],[2]. Questo risultato è emerso per ciascuno dei singoli pilastri E, S e G, oltre al livello ESG complessivo, secondo le dimensioni fornite dai principali fornitori di ricerca ESG. Pur mirando a diversi livelli di tracking error, è altamente costruttivo osservare che le letture del rendimento cumulato e dell’indice di Sharpe rimangono costanti. L’unico caso in cui il sacrificio idiosincratico è stato realizzato in un rendimento corretto per il rischio è stato nel portafoglio legato all’MSCI USA, il che può essere spiegato dal peso elevato dei titoli “FAANG” in questo indice.

Ne risulta che, di fronte a un periodo particolarmente complesso come quello iniziato nel 2022 e molto probabilmente destinato a proseguire nel 2023, la componente di selezione ESG si deve necessariamente accompagnare ad un ulteriore filtro “attivo” di valutazione degli asset di rischio. Crescita dell’inflazione, andamento del settore delle commodity, rischi geopolitici e protrarsi del conflitto in Ucraina, senza dimenticare il persistente rischio legato della pandemia, sono solo alcune delle variabili che stanno sempre più entrando in gioco in questo scorcio d’anno.

È pertanto interessante notare la tendenza in corso verso la costruzione di portafogli che assumono la configurazione, ove possibile e permesso agli investitori istituzionali, degli endowment internazionali.

Se la componente obbligazionaria e monetaria continuerà a offrire una base di “protezione” e stabilità, in particolare per profili di rischio più bassi, la ricerca di rendimenti è indirizzata verso gestioni attive con un bias Quality-Value che riduca la duration dell’esposizione equity accompagnata da forme di investimento alternative: private equity, infrastrutture e private debt. A questo devono necessariamente aggiungersi real asset, commodity e materiali. In termini di asset allocation, una composizione regionale del portafoglio sarà sempre più necessaria.

Come detto, sarà necessario assumere maggiori rischi privilegiando la ricerca dell’alfa, più che del beta.