Le incognite dopo la corsa del dollaro

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Il dollaro è uno dei pochissimi asset che quest’anno ha contribuito a dare stabilità ai portafogli. Nonostante la flessione dei giorni scorsi, l’indice DXY (che rappresenta l’andamento della valuta statunitense contro un paniere di valute, tra le quali l’euro ha il peso principale) è salito di circa il 10% da inizio anno, sfiorando i massimi degli ultimi vent’anni.

La forza del dollaro è dovuta a diversi fattori. Innanzitutto, la Federal Reserve (Fed) si sta muovendo più rapidamente delle altre banche centrali principali nel ridurre la liquidità e alzare i tassi d’interesse. Con il Treasury a 3 anni sopra il 2,5%, molti investitori hanno deciso di dirottare risorse da altre valute verso il dollaro.

Inoltre, il dollaro ha beneficiato dalle tensioni geopolitiche e della volatilità sui mercati. Infatti, riveste uno status di bene rifugio in quanto è una valuta riconosciuta a livello globale e rappresenta un’ampia maggioranza degli scambi commerciali, essendo anche la valuta di riferimento negli scambi di materie prime, e delle riserve valutarie internazionali.

Inoltre, la guerra in Ucraina e le sanzioni contro la Russia hanno delle implicazioni molto più pesanti per l’Europa che per gli Stati Uniti, che sono più distanti geograficamente, sono meno connessi con le aree interessate dalle tensioni e non dipendono dalle forniture energetiche russe.

Per queste ragioni, dall’inizio dell’anno abbiamo avuto una preferenza per il dollaro, che abbiamo modificato solo di recente riportandolo a una posizione neutrale. Ci aspettiamo che il cambio euro-dollaro chiuda l’anno sui livelli attuali (circa 1.07) ma che tra un anno abbia riconquistato un livello di 1.10.

Ci sono molteplici ragioni per le quali pensiamo che il biglietto verde abbia già espresso gran parte del suo potenziale. Intanto, il mercato sconta già pienamente le indicazioni della Fed riguardo ai possibili aumenti dei tassi d’interesse.

Gli Stati Uniti sono senz’altro meno esposti dell’Europa alla guerra in Ucraina, ma non ne sono certamente immuni. Si evidenziano alcuni segnali di debolezza economica anche oltreoceano che potrebbero influire sulle decisioni della Fed, anche perché alcuni indicatori suggeriscono che il picco dell’inflazione sia stato superato. Inoltre, le elezioni mid-term del Congresso statunitense in programma a novembre potrebbero rendere meno efficace l’azione di governo.

Da un punto di vista valutario i fondamentali americani non sono molto promettenti, dato che gli Stati Uniti registrano un elevato «deficit gemello».

Con questa espressione si indica la combinazione di un elevato deficit del bilancio pubblico e di un pesante passivo della bilancia commerciale. Questi dati implicano che gli Stati Uniti si fanno finanziare dall’estero, un elemento tipicamente negativo per le valute, e tali squilibri si sono accentuati dall’inizio della pandemia.

Inoltre bisogna considerare che, con tutta probabilità, il mercato valutario diventerà sempre più multicentrico man mano che aumenterà la credibilità di altre valute, come il renminbi o l’euro, e ciò potrebbe far diminuire la domanda di dollari nel lungo termine. Si tratta di un processo molto lento e la dominanza della valuta statunitense non verrà messa in discussione a medio termine, ma dal 2000 ad oggi il peso del dollaro nelle riserve di valuta estera a livello globale è sceso di 11 punti percentuali, pur rimanendo al 60% nel 2021. Questo processo potrebbe essere accelerato dalle recenti tensioni geopolitiche.

Per queste ragioni abbiamo rimosso il sovrappeso sul dollaro e non suggeriamo di costruire posizioni nella valuta statunitense. Preferiamo le valute degli esportatori di materie prime come il dollaro australiano, la corona norvegese e il dollaro canadese. Rimaniamo invece cauti sull’euro (nel contesto di un portafoglio valutario diversificato), che potrebbe risentire degli impatti economici della guerra in Ucraina e di rendimenti ancora bassi.