Quale soglia per le valutazioni sui mercati azionari?

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Con oscillazioni comprese a maggio tra 16,5 e 17,5, il rapporto prezzo/utili (P/E, Price/Earnings) a un anno – l’indice di valutazione più famoso dei mercati azionari dell’S&P 500 – è più o meno tornato ai livelli pre-Covid e alla sua mediana degli ultimi 10 anni. Sono un lontano ricordo ormai i multipli superiori a 22,5x registrati nella primavera del 2021. Sarebbe corretto quindi affermare che le valutazioni sono tornate a essere interessanti o semplicemente “giuste”? Per quanto allettante, questa conclusione sembra troppo ottimistica.

È innanzitutto necessario ricordare che le fasi di stretta monetaria vanno di pari passo con una forte compressione dei multipli di valutazione, già parzialmente avvenuta ma forse non ancora terminata. In effetti, le valutazioni pre-crisi o degli ultimi 10 anni, con cui si è tentati di confrontare il livello attuale, corrispondono per lo più a periodi in cui la politica monetaria era accomodante. L’unica volta in cui è stata restrittiva, nel 2017-2018, il P/E dell’S&P è sceso sotto a 14. Di fronte alle tensioni sui mercati, al rallentamento dell’economia e alle pressioni della Casa Bianca, la Federal Reserve aveva all’epoca cambiato approccio e messo fine al processo di inasprimento monetario.

Ora, contrariamente a quanto auspicherebbe parte degli investitori, sono poche le possibilità che questo scenario si ripeta visto che l’inflazione di fondo, appena superiore al 2% nel 2018, supera oggi il 6%. Se Donald Trump, alla fine del 2018, continuava a esercitare pressioni sulla Fed affinché smettesse di inasprire le condizioni finanziarie, Joe Biden incoraggia oggi l’istituzione ad adoperarsi al massimo per combattere l’inflazione. Se alla fine del 2018, la Fed aveva già aumentato i tassi del 2,25% e stava riducendo il suo bilancio da diversi mesi ormai, dopo la riunione del 15 giugno prossimo avrà raggiunto l’1,25% soltanto e iniziato appena a ridurre il suo bilancio. Infine, Jerome Powell, il presidente della Fed, ha ammesso che è stato probabilmente un errore tornare a un approccio monetario accomodante a partire dalla fine del 2018. Immaginare che la Fed possa temporeggiare in occasione del minimo intoppo economico sembra quindi alquanto compiacente. Impegnata in una strenua lotta contro l’inflazione, la Fed cambierà rotta solo se l’inflazione mostrerà segni tangibili di attenuazione, al costo di provocare un netto rallentamento della crescita economica.

La salvezza per le valutazioni non va quindi ricercata nella politica monetaria ma l’unica via di crescita percorribile per i mercati sarà quella degli utili. È questa la seconda insidia per le valutazioni. L’attuale P/E è calcolato sugli utili a un anno che, sebbene rivisti di poco al ribasso per ora, sono ben lungi dal tener conto diuno scenario di forte rallentamento o addirittura di recessione nel giro di pochi trimestri, che ha recentemente suscitato preoccupazione sui mercati. Tuttavia, sia nei periodi di recessione classica – cioè di deflazione – sia in quello di stagflazione degli anni ’70, il rapporto P/E alla fine è sempre sceso sotto 10. Aumenta la probabilità di questi scenari incerti negli ultimi mesi, aggiungendo ulteriore pressione alle valutazioni dei mercati azionari e, di conseguenza, ai prezzi delle azioni.

Con l’avvicinarsi dei risultati del secondo trimestre del 2022, che potrebbero deludere a livello di margini, questo contesto invita alla cautela. Sebbene sia complesso stabilire quale possa essere la soglia per le valutazioni dei mercati azionari, sembra difficile che possano salire nel giro di pochi trimestri, correndo anzi il rischio di scendere ulteriormente. Più che sui temi dell’inflazione e della politica monetaria, ormai scontati, gli investitori dovranno ora concentrarsi sui risultati aziendali… e distinguere il grano dalla pula.