Perché i prezzi salgono ancora

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La guerra di aggressione russa all’Ucraina dura ormai da più di tre mesi. In questo nuovo conflitto Oriente-Occidente, il mondo libero è chiamato ad affrontare delle sfide piuttosto pragmatiche, come ad esempio ridurre la dipendenza dalle importazioni di energia e materie prime russe e migliorare le capacità di difesa.

Il rincaro dell’energia, i costi crescenti per la sostituzione dei combustibili fossili e la sicurezza delle forniture energetiche, l’aumento della spesa per la difesa e la riorganizzazione delle catene di fornitura stanno mettendo a dura prova i bilanci statali e facendo lievitare i prezzi. I programmi di aiuto e sostegno del governo, come i sussidi energetici, mirano a limitare, almeno per il momento, l’impatto di queste dinamiche sulle famiglie a basso reddito per scongiurare disordini sociali. Non riusciranno però a compensare in modo permanente gli effetti dello shock dei prezzi: lo Stato non ha abbastanza soldi.

Anche per questo i sindacati alzeranno l’asticella nelle prossime contrattazioni collettive e difficilmente si lasceranno dissuadere dalla tiritera di una fase inflazionistica passeggera. Non è tutto: le crescenti strozzature nel mercato del lavoro saranno ulteriormente aggravate nei prossimi anni dal pensionamento di molti baby boomer, il che farà accelerare ancor di più l’aumento delle retribuzioni.

La spirale salari-prezzi

Una spirale salari-prezzi – e con essa il consolidamento di un’inflazione galoppante – è sempre più probabile, visto che la prospettiva di continui rincari si sta ormai radicando nella mente della gente. Al contrario, si fa sempre più remota la possibilità di un calo dei tassi d’inflazione verso il target del 2% fissato dalle banche centrali.

Si sta quindi delineando un nuovo regime d’inflazione. Per tenere fede al loro mandato di stabilità dei prezzi, le banche centrali non devono più spingere verso l’alto un’inflazione troppo bassa, ma trascinare verso il basso un’inflazione troppo alta – sì, ma come?

Difficilmente riusciranno a far rientrare nella lampada il genio che hanno liberato con una politica monetaria accomodante. L’esplosione dei prezzi nelle stazioni di servizio e l’onnipresenza dell’argomento nei media stanno accrescendo la consapevolezza dell’opinione pubblica.

Se è vero che c’è stabilità dei prezzi quando la gente smette di parlare d’inflazione, al momento vale l’esatto opposto. L’ancora mentale dell’inflazione sta cominciando ad allontanarsi dal target del 2%. Le persone si stanno preparando ad un aumento dei prezzi e stanno adattando il più possibile i modelli di consumo. Chi si aspetta un forte carovita, predilige gli acquisti pianificati, ad esempio di beni di consumo e durevoli, come auto, mobili o dispositivi elettronici. Al momento però il problema non sono tanto i prezzi delle merci, quanto la scarsa disponibilità e i tempi di consegna lunghissimi.

Il ruolo delle banche centrali

Per far scendere l’inflazione in modo significativo e riportarla al target del 2%, le banche centrali dovrebbero aumentare i tassi d’interesse a un punto tale da ridimensionare la domanda di beni di consumo e di investimento e assicurare così una stabilizzazione dei prezzi.

Vista l’offerta piuttosto carente, per ottenere questo effetto servirebbero degli interventi sui tassi d’interesse molto più drastici che in passato. Oggi non si potrebbe mai implementare una politica come quella dell’ex presidente della Federal Reserve statunitense Paul Volcker, che nel 1980 per contrastare un’inflazione spintasi al 15% portò temporaneamente il tasso di riferimento al 20% e lo mantenne oltre il 10% per diversi anni: sarebbe un’impresa destinata a fallire.

Rispetto al passato, l’indebitamento è troppo elevato. Per la zona euro, un tasso d’interesse compreso fra il 2 e il 3% sarebbe già problematico, figuriamoci oltre: l’impatto sarebbe devastante.

Già adesso le obbligazioni degli Stati altamente indebitati vengono scambiate con un notevole premio al rischio rispetto ai Bund. Se i rendimenti dei titoli di Stato tedeschi dovessero salire al 2-3% a seguito di una lotta agguerrita all’inflazione da parte della Banca Centrale Europea (BCE), quelli degli omologhi italiani si avvicinerebbero probabilmente al 4-5%. A quel punto – se non prima – la BCE dovrebbe fare marcia indietro e ricominciare ad acquistare le obbligazioni dei paesi penalizzati per far scendere i rendimenti.

È evidente che le banche centrali hanno le mani legate. Soprattutto la BCE, che non ha molto margine di manovra per aumentare i tassi d’interesse, almeno non ai livelli necessari per contrastare con successo l’inflazione. Ecco perché ci aspetta una lunga fase di tassi d’interesse reali ampiamente negativi, con tutte le conseguenze del caso a danno dei risparmiatori.