Banche centrali, inflazione e anni ’70

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La pubblicazione, il 13 settembre scorso, dei dati dell’inflazione US all’8,3% per il mese di agosto, leggermente al di sopra dell’8,1% previsto, poteva sembrare cosa banale tanto era esiguo lo scostamento tra le aspettative e i dati reali. Eppure, ha causato uno shock sui mercati. Gli indici azionari statunitensi hanno perso più del 4% in quello che è stato il giorno peggiore da giugno 2020. A dimostrazione che lo sconvolgimento è duraturo, il mercato non si è più ripreso, contrariamente a quanto spesso accade dopo una flessione del genere. Anzi, ha persino continuato a cedere terreno. Ma l’eco più duratura è forse quella meno visibile: sono le aspettative di rialzo dei tassi da parte del mercato. A metà agosto, il mercato si aspettava che i tassi di riferimento raggiungessero il 3,50% entro la fine dell’anno (Dati di consensus Bloomberg). I discorsi dei membri del Comitato di politica monetaria della Fed, uno più bellicoso dell’altro, hanno indotto quest’ultimo a rivedere le proprie aspettative al rialzo, aspettative salite, nel giorno della pubblicazione, al 4,25% segnando un aumento di 75 punti base rispetto al mese precedente, un livello già alto rispetto alla media degli ultimi decenni. Questa volta la differenza è tutt’altro che banale.

Per il mercato, il problema non è tanto il livello globale dell’inflazione che era stato più o meno previsto. Il problema risiede nella sua principale fonte, più profonda dell’aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari: si tratta degli alloggi. Continua, contro ogni aspettativa, l’impennata degli affitti. E poiché i tassi sui prestiti continuano pure loro a salire, dovremmo aspettarci richieste di aumenti salariali importanti, difficili da contestare, visto soprattutto che il mercato del lavoro statunitense sta andando ancora molto bene. Questo ci porta a pensare che l’inflazione sarà piuttosto duratura e che le banche centrali adotteranno un atteggiamento rigido per molto tempo, al costo anche di mettere la crescita in difficoltà, fintanto almeno che regge l’occupazione.

Gli investitori stanno quindi entrando in un periodo che pochi hanno vissuto, che ricorda moltissimo gli anni Settanta. Se dobbiamo in qualche modo riviverli nonostante tutte le palesi differenze – in particolare la demografia e il livello del debito pubblico – quali sono i nuovi parametri da prendere in considerazione alla luce dell’ultimo regime di inflazione duratura negli Stati Uniti?

Primo parametro: l’inflazione occidentale può raggiungere dei picchi duraturi. Alla fine del 1974 si attestava al 12% negli Stati Uniti. Dopo aver subito una leggera battuta d’arresto (intorno comunque al 5% alla fine del 1976) è risalita al 15% circa all’inizio del 1980. Questi livelli sono ancora ben distanti dall’episodio attuale ma sono già stati raggiunti – o addirittura superati – da diversi Paesi dell’Eurozona, in particolare a Est.

Il secondo parametro è che i tassi di riferimento possono anche loro raggiungere dei picchi: il 13% nel 1974 e addirittura il 20% nel 1980. In confronto, il 4-5% attualmente previsto non rappresenta nulla. Anche in riferimento alla media, i livelli sfidano i consueti parametri: tra il 1971 e il 1990 è stata dell’8,25%!

In terzo luogo, i tassi decennali sono stati talvolta ben al di sotto di quelli di riferimento anche se li hanno comunque seguiti, generalmente con un certo ritardo: hanno così superato il 15% nel 1981 e la loro media è stata del 9% tra il 1970 e il 1990. Vicini quindi alla media dei tassi di riferimento, il loro disaccoppiamento non è di solito duraturo.

Infine, e questo è forse l’insegnamento più preoccupante, i tassi di riferimento raramente si sono discostati molto dai livelli di inflazione complessiva. La Federal Reserve dell’epoca non esitò a inasprire le condizioni monetarie in modo significativo non appena l’inflazione aumentò, mantenendo addirittura dei tassi di riferimento ben al di sopra del livello dell’inflazione per tutti gli anni ’80.

Nulla accadrà esattamente come ai tempi in cui i banchieri vestivano pantaloni a zampa d’elefante anche se la storia insegna che il margine di manovra per i tassi e l’inflazione è però molto più ampio di quanto non sia stato negli ultimi 30 anni. Per non rimanere indifesi qualora le cose dovessero prendere una brutta piega, impariamo dal passato per far fronte al futuro e adattiamo i portafogli.