Terzo settore, il Ristorante Smack di Monza un esempio concreto di economia circolare

-

Irene Pivetti

“Il segreto del Ristorante Smack è che non si fa solo ristorazione. Allo Smack infatti si intrecciano altre due attività di rilevante valore per la comunità: i servizi di carattere sociale (…) e, nelle ore serali, attività di intrattenimento di tutti i generi (…). In questo modo lo Smack è un centro sociale oltre che un luogo di ristorazione che, in modo discreto e informale, ma professionale, si propone di soddisfare una gamma di bisogni vasta ed immediata”. Il Ristorante Smack, nel quartiere di San Fruttuoso a Monza, aperto da poco più di quattro mesi, è un esempio concreto di economia circolare “che dimostra che il Terzo Settore è in grado di mettere in campo iniziative economiche che si autosostengono, creano valore, e addirittura rimettono in moto l’economia”. A parlare con LMF è Irene Pivetti che gestisce il locale per conto di due cooperative sociali, Monza 2000 e Mac Servizi, che hanno deciso di unirsi in rete di impresa e, insieme ad alcuni partner del terzo settore hanno rilanciato l’attività.

Che cos’è e come nasce il Ristorante Smack?

“Il Ristorante Sociale Smack è una brillante risposta anticrisi. Nel cuore del quartiere residenziale di San Fruttuoso, alla periferia “nobile” di Monza, lo Smack ha l’ambizione di rilanciare il centro sociale di via Tazzoli secondo la sua vocazione originale, e cioè essere uno dei motori della vita sociale del quartiere. Smack fa parte di un unico complesso che riunisce ristorante, alloggi per pendolari (un tempo per studenti), biblioteca, campo sportivo, ed anche una cappella, chiusa da tempo ma che sempre si spera di potere riportare in attività. Il covid e le circostanze avevano fatto si che questo vasto locale, da 120 posti e più, restasse chiuso
per oltre cinque anni, ed anche aziende blasonate della ristorazione collettiva avevano dovuto gettare la spugna, fino al giorno in cui, abbandonato ogni modello di business tradizionale, due cooperative sociali, Monza 2000 e Mac Servizi, hanno deciso di unirsi in rete di impresa e, insieme ad alcuni partner anch’essi del terzo settore hanno rilanciato l’attività del locale”.

Quindi non è solo un ristorante…

“Il segreto del Ristorante Smack è che non si fa solo ristorazione, anche se si mangia bene, piatti semplici come a casa della nonna. Allo Smack infatti si intrecciano altre due attività di rilevante valore per la comunità: i servizi di carattere sociale (caf e patronato, ma anche cancellazione di debiti e di cartelle esattoriali, collocamento lavorativo, microcredito, eccetera) e, nelle ore serali, attività di intrattenimento di tutti i generi, dalla musica ai tornei di carte o di dama, presentazioni di libri, interviste e così via. In questo modo lo Smack è un centro sociale oltre che un luogo di ristorazione che, in modo discreto e informale, ma professionale, si propone di soddisfare una gamma di bisogni vasta ed immediata”.

Parliamo quindi di Terzo settore da non confondere con il volontariato.

“Esatto. Il volontariato è una grande virtù del popolo italiano, si sa, lo è da sempre. E anche se negli ultimi trent’anni il numero di volontari si è sostanzialmente dimezzato (dagli 11 milioni degli anni ’80 ai 5 milioni e mezzo di questo decennio), parliamo sempre di una grande generosità che prende forma nei modi più diversi, per aiutare senza ricevere in cambio alcuna ricompensa venale. Il terzo settore invece è una realtà diversa: aziende, vere aziende, con i loro dipendenti ed amministratori e consulenti eccetera, che redigono veri bilanci ed adempiono tutti gli obblighi societari, dalla fiscalità ai contributi, per capirci, il più delle volte senza agevolazioni particolari, e che sono caratterizzate dal fatto, fondamentale, di non volere né potere produrre alcun utile netto. L’utile eventuale infatti è interamente reinvestito nello scopo sociale, e non si prevede mai in alcun caso la distribuzione di dividendi fra i soci. Non formali, ma sostanziali, sono altri due requisiti delle imprese del terzo settore: innanzitutto il loro obiettivo, che è esplicitamente volto a soddisfare un bisogno, a compensare una fragilità, di carattere culturale, economico, sociale, civile”.

L’altro requisito?

“La struttura societaria, che può essere programmaticamente composta da soggetti socialmente fragili, o per motivi di salute, o di età, o di esclusione sociale per qualsiasi causa. E’ il caso, ad esempio, delle cooperative sociali, come appunto la MAC, che possono essere di tipo A, B oppure A + B. Al di là di considerazioni di valore morale, sempre possibili, ma forse meno pertinenti nel contesto di questa testata, vale la pena di portare l’attenzione sul fatto che per questi motivi tali imprese, strutturalmente, possono sviluppare centri di costo superiori alla media del settore (ad esempio, un dipendente assunto con riguardo alle sue fragilità può essere meno “produttivo” di uno selezionato sulla base delle competenze professionali) ma possono anche innescare sinergie estremamente efficaci che consentono di ridurne altri in modo scalare (ad esempio, la propensione al riuso dei beni strumentali, degli arredi, alle tecnologie, agli immobili, ecc, ma anche una attitudine a stabilire relazioni di mutualità con altri soggetti di varia natura). Questo porta una strutturazione del budget significativamente diversa da un’azienda profit, il che meriterebbe una riflessione specifica del legislatore, sia per quanto riguarda gli aspetti tributari che gli oneri sociali, se si volesse davvero incentivare la crescita e lo sviluppo di questo tipo di aziende. Il tutto, naturalmente, al netto di eventuali contribuzioni volontarie in termini di denaro, ore lavorate o oggetti donati, che ancor più concorrono a fare di una impresa del terzo settore un ircocervo affascinante ma poco conosciuto, ed ancor meno compreso dalla generalità degli analisti economici”.

Un esempio di resilienza in un periodo particolarmente complesso dal punto di vista economico?

“Giustissima osservazione. Quale che sia l’impostazione ideologica dalla quale si parte nell’analisi di un’impresa sociale, e cioè che essa concorra con lo Stato ad assolvere doveri di assistenza e soddisfacimento del bisogno sociale, e debba per questo venire supportata economicamente, ovvero che essa debba agire competendo comunque sul mercato in un contesto liberista, o anche che assolva compiti di sussidiarietà interagendo con il sistema dei corpi sociali intermedi, sempre apparirà con evidenza la speciale attitudine dell’impresa sociale a reagire agli stimoli negativi rilanciando la propria azione con l’innovazione nel metodo. In una parola semplice: flessibilità, nel permanere degli obiettivi, e grandissima capacità di relazione. Questa è la formula magica che determina appunto la resilienza nei contesti di crisi”.

C’è poi un risvolto sociale importante…

“Che si tratti di un ordine religioso millenario o di una cooperativa sociale costituita durante il coronavirus, se l’ente funziona è perché è dotato di un’infinita capacità di adattamento, che attinge a risorse interne ed esterne in modo non convenzionale. Sarebbe davvero interessante uno studio sistematico di alcuni modelli operativi delle imprese sociali, identificando quali siano gli asset che realmente concorrono a formare il valore dell’azienda. Scopriremmo ad esempio, non senza sorpresa, che proprio quei soggetti socialmente fragili che vengono assunti come personale sotto-qualificato in realtà generano un impulso motivazionale ed una rete di relazioni straordinari”.

Quali sono i vantaggi dal punto di vista microeconomico e macroeconomico di una realtà come questa?

“Dal punto di vista microeconomico, una impresa sociale come il ristorante sociale Smack è un fenomeno di redditività: con un investimento iniziale inferiore ai ventimila euro, necessario per rendere utilizzabili e poi accoglienti i locali e la cucina un tempo abbandonati, con più di 100 coperti disponibili e 18 dipendenti, in un quartiere bellissimo ma totalmente disabituato alla socialità, a poco più di quattro mesi dall’apertura è sostanzialmente in pareggio sia per quanto riguarda i costi del personale che l’acquisto delle derrate, e dei servizi. Inoltre, sottraendo all’isolamento le persone che vi lavorano, previene lo sviluppo di patologie sociali che rappresenterebbero un passivo per i conti pubblici, e li mantiene nel circuito produttivo. Per tacere della valorizzazione del patrimonio immobiliare che ospita l’iniziativa, che dopo oltre cinque anni di abbandono ritrova ora un nuovo interesse ed appetibilità, crescendo potenzialmente di valore economico”.

E dal punto di vista macroeconomico?

“Una adeguata riflessione sulla specificità dell’impresa sociale, che vada oltre la prima e fondamentale definizione relativa all’omissione dell’utile netto, e che viceversa ne espliciti la vocazione di promotore sociale (e quindi anche di argine ad ogni forma di degrado) non potrebbe non rilevare che tale tipologia di impresa è economicamente produttiva, cioè produce comunque ricchezza, concorrendo alla crescita del PIL; produce gettito fiscale, almeno indiretto (IVA) oltre ai tributi locali; produce gettito contributivo ed assistenziale; rispondendo ai bisogni sociali, e prevenendone le degenerazioni, contribuisce in modo determinante al contenimento della spesa pubblica, sociosanitaria ed assistenziale. Senza contare ovviamente la gratificazione personale che molti degli operatori del terzo settore indicano come principale motivo per cui investono le loro energie lavorative in questo tipo di imprese, invece che in normali imprese profit. A questo possiamo aggiungere che i dati dimostrano l’ottima affidabilità bancaria degli enti del terzo settore, e delle imprese sociali in particolare, quasi del tutto a prescindere dagli ordinari parametri di affidabilità strettamente economica e patrimoniale da essi posseduti. E’ quella capacità di evitare il default che ha fatto di Banca Prossima, interamente dedita agli enti del terzo settore, un tale fenomeno di performance all’interno del gruppo Intesa San Paolo che ha indotto pochi anni fa il gruppo ad assorbirla definitivamente. Da questa ultima osservazione discendono due importanti corollari”.

Quali?

“Il primo, che con ogni evidenza c’è spazio nel sistema bancario per istituti che volessero dedicarsi agli enti del terzo settore, e qui la storia è ancora tutta da scrivere. Il secondo, è una questione tanto ovvia quanto cocciutamente irrisolta, che è la seguente: i criteri di bancabilità delle imprese sono davvero volti ad identificare le più affidabili di esse? E se non lo sono, in che direzione dovrebbe muoversi una utile revisione dei criteri attualmente in uso? Facile immaginare l’impatto macroeconomico, di grande momento, che deriverebbe da un tale mutamento di parametri. Magnifico sperare che, cogliendo l’occasione del momento storico di ripartenza globale, il decisore politico e finanziario voglia cogliere anche questa straordinaria opportunità di sviluppo”.