Non solo Chat Gpt: la realtà dell’intelligenza artificiale, fuori dal mito fantascientifico e dentro alle aziende

Shalini Kurapati, CEO e Co-founder di Clearbox AI -
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Lo dicono i dati: anche l’Italia ha un mercato dell’Intelligenza artificiale fiorente. Secondo l’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano, ha raggiunto i 500 milioni di euro, crescendo del +32% in un anno. E sembra che tra i principali utilizzatori di questa nuova e dirompente tecnologia ci siano non tanto giovani nerd o imprese futuristiche, quanto le grandi e piccole aziende dello Stivale: il 61% delle grandi imprese e il 15% di piccole e medie imprese conoscono e utilizzano un sistema di IA.

Un trend che è destinato a crescere, stando alle rilevazioni di State of IT – il report di Salesforce condotto su oltre 4.000 leader nel settore IT, 200 dei quali in Italia, che rivela le nuove tendenze nell’ambito IT. Sembrerebbe che l’89% dei leader IT preveda che l’AI generativa svolgerà un ruolo cruciale all’interno delle proprie aziende nel prossimo futuro. Un dato che fa il paio con la crescita negli investimenti in automazione entro i prossimi 18 mesi.

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Tuttavia, l’adozione di questa tecnologia varia da un’organizzazione all’altra: alcune aziende la usano tanto, altre pochissimo. Come mai?

Una dicotomia tutta italiana: perché alcune imprese adottano l’IA e altre no?

Questo dipende da diversi fattori, uno dei quali è la cultura di gestione dei dati. In parole povere, la dimestichezza con cui un’azienda sa maneggiare, trattare, archiviare i dati digitali fa tutta la differenza. Le aziende che hanno una cultura di gestione dei dati ben sviluppata e accesso a un’infrastruttura informatica robusta, hanno maggiori probabilità di abbracciare l’IA a lungo termine. Quelle che invece non hanno ancora questo tipo di competenze e di organizzazione – per via di una scarsa propensione al digitale ma anche, più banalmente, a causa di barriere di costo – si vedranno molto limitate nella loro potenzialità di utilizzo dell’intelligenza artificiale in qualsiasi ambito.

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Poi, c’è un terzo fattore, che forse è più sottile: c’è purtroppo ancora oggi in Italia una mancanza diffusa di comprensione riguardo alle potenzialità dell’IA, i reali benefici che possa apportare a un’organizzazione, quali siano i rischi e come poterli arginare. Ad esempio, l’IA è spesso accostata a una soluzione miracolosa ai problemi aziendali, invece di essere vista per quello che è: una tecnologia all’avanguardia che aiuta l’essere umano nel suo lavoro. Oppure è approcciata come un’innovazione futuristica che potrebbe sfuggire di mano da un momento all’altro. Insomma, molte aziende potrebbero non avere una visione chiara di come l’intelligenza artificiale possa essere integrata nei loro processi e non sanno come sfruttare appieno il suo potenziale.

Per ovviare a questo problema diffuso che rappresenta un vero e proprio blocco all’innovazione aziendale, la formazione svolge un ruolo cruciale: è importante insomma fare in modo che le proprie risorse siano formate sulle novità dell’IA e su come si possa integrare per efficientare, ottimizzare, rendere più semplice il lavoro. Può essere poi necessario introdurre nuove figure professionali per risolvere i bisogni aziendali attraverso soluzioni di intelligenza artificiale, dalla gestione e pulizia dei dati fino all’implementazione vera e propria. Per la parte di dati, data scientists, data engineers e data labelers collaborano per ottenere l’accesso a dati puliti e interpretabili, per poi etichettarli e gestirli all’interno delle pipeline. Gli ingegneri di machine learning si occupano di sviluppare e implementare i modelli AI che opereranno sui dati precedentemente lavorati. L’AI product owner si occupa di supervisionare lo sviluppo dei prodotti AI definendone strategia, coordinando i team e le priorità per raggiungere gli obiettivi aziendali. Questi sono solo alcuni esempi di professionalità del settore che convergono per il corretto funzionamento della tecnologia AI aziendale.

Comunque, nonostante queste barriere, la situazione dell’adozione dell’IA in Italia resta più rosea di quanto molti immaginino: infatti, sempre secondo l’Osservatorio del Politecnico di Milano, il 61% delle grandi aziende ha avviato progetti di IA e il 34% è nella fase dell’implementazione. Ovviamente per le imprese più grandi l’AI è più accessibile in quanto hanno più risorse a disposizione, ma non è detto che sia appannaggio solo delle aziende molto strutturate. Ad esempio, tra le imprese italiane prevale l’utilizzo dell’AI “embedded”, ovvero già incorporata in tecnologie come i robot o i sistemi di sicurezza. Da questo punto di vista l’Intelligenza artificiale è pervasiva anche tra le imprese più piccole: la usa il 90% delle Pmi, spesso senza rendersene conto (fonte: Osservatorio Polimi).

Usi attuali dell’IA in azienda: la realtà fuori dal mito

Anche se spesso non ci salta direttamente all’occhio, perché le principali notizie che parlano di intelligenza artificiale si riferiscono a quegli utilizzi che fanno più scalpore (copiare il volto o la voce di un personaggio famoso, scrivere un articolo o una sceneggiatura, creare fake news, e via dicendo) l’IA ha già dimostrato il suo valore in molteplici settori aziendali. Ad esempio, molte imprese utilizzano l’intelligenza artificiale per migliorare la business intelligence: mentre in passato le decisioni aziendali erano spesso basate sull’analisi di dati storici da parte dell’occhio umano, oggi l’IA consente una prospettiva proattiva. È possibile per esempio utilizzarla per prevedere le tendenze di vendita future e sviluppare strategie prescrittive per massimizzare i profitti.

Altre applicazioni già ampiamente diffuse nelle organizzazioni includono sistemi di raccomandazione, che aiutano le aziende a suggerire prodotti o contenuti ai clienti in base alle loro preferenze, migliorando così l’esperienza dell’utente. O ancora, l’IA è impiegata per il rilevamento di frodi e la valutazione del rischio in ambiti come mutui e prestiti, automatizzando processi ripetitivi e passibili di errore che richiederebbero altrimenti un considerevole lavoro umano. Ad esempio, anche noi di Clearbox AI abbiamo sviluppato dei servizi di IA che aiutano a ottimizzare i modelli di fraud detection o di analisi creditizia.

Tante sono le imprese che utilizzano chatbot e sistemi intelligenti per l’assistenza ai clienti e, infine, l’intelligenza artificiale inizia a diffondersi anche nel settore delle risorse umane, in quanto ad esempio può aiutare nell’identificazione dei candidati migliori per le posizioni aperte (affiancando i professionisti). Anche se ad oggi, secondo una ricerca di Future Workplace, solo il 6% delle funzioni HR utilizza l’AI per facilitare il processo di recruiting.

Questi sono solo alcuni degli usi principali: sicuramente meno fantascientifici rispetto alle funzioni più famose di cui abbiamo letto online o che abbiamo sperimentato, ma decisamente più diffusi e utili. Non è un caso se, secondo l’Osservatorio del Politecnico, solo nel 2022 le imprese italiane hanno acquistato dai vendor tecnologici soluzioni IA per un ammontare complessivo di 500 milioni di euro (+32% rispetto al 2021). Una rivoluzione silenziosa che è già in corso, è qui per restare e soprattutto può migliorare la vita aziendale sotto molteplici punti di vista.

IA e bias: un problema vero che si può arginare

Non bisogna però dimenticare che l’IA, inclusa ChatGpt, non è immune a problemi di bias (vale a dire, la tendenza a perpetuare dei pregiudizi). Questi bias possono emergere quando i modelli di intelligenza artificiale sono addestrati su dati che riflettono pregiudizi umani esistenti. Insomma, quando l’IA impara da Internet o da dati storici obsoleti rispetto alla società odierna, non fa che rispecchiare quello che lì dentro può trovare. Questo perché l’intelligenza artificiale non è altro che una potente combinazione di dati e algoritmi. Questi ultimi richiedono enormi quantità di dati per essere allenati e mettersi al lavoro. E se ricevono dati di scarsa qualità, anche i risultati lo saranno. Come si dice: garbage in, garbage out. In particolare sono già emersi chiaramente tre rischi a livello sociale: la perpetuazione di preconcetti legati a stereotipi (es. con ChatGPT: se c’è uno scenario con un medico e un infermiere, dà per scontato che il medico sia uomo e l’infermiere donna), la disparità fra generi ed etnie e l’inclusività (ad es. ChatGPT non performa altrettanto bene con lingue che non siano l’inglese).

Però c’è una speranza: qualsiasi forma di IA si può allenare e si può anche lavorare sulla tipologia e qualità dei dati sui quali impara. Ad esempio, esistono tecnologie di IA generativa come i dati sintetici, di cui ci occupiamo in Clearbox AI, che permettono di mitigare la presenza di dati discriminatori andando a bilanciare le informazioni storiche di partenza.

È responsabilità degli sviluppatori, degli utenti dell’IA e delle autorità regolatorie attuare misure per mitigare i bias e garantire che i modelli siano equi e rappresentativi. E in effetti a livello regolatorio qualcosa si sta già muovendo (si pensi all’AI Act europeo). L’attenzione all’etica e alla giustizia nell’IA è fondamentale per garantire che questa tecnologia continui a essere efficiente e questa, certamente, è una preoccupazione reale che non può essere relegata al mondo della fantascienza.