Dovremmo preoccuparci della stagflazione?
Il presidente della Fed Jerome Powell, nel corso dell’ultima conferenza stampa tenutasi l’1 maggio, ha cercato di dare una svolta positiva a un’atmosfera alquanto pessimistica, con una dichiarazione che è rimasta decisamente impressa. Riferendosi all’economia, Powell ha infatti affermato di non vedere “una stagflazione né sulla crescita né sull’inflazione”.
Questa è stata l’affermazione conclusiva di un intervento che si è rivelato meno aggressivo rispetto alle aspettative degli investitori. Durante la conferenza, Powell ha riconosciuto la persistenza dell’inflazione, ma al contempo ha allontanato le preoccupazioni riguardanti un ulteriore aumento dei tassi di interesse. Ha inoltre evidenziato come vi sia una certa incongruenza nel comportamento degli investitori, i quali possono gioire per le prospettive di un “atterraggio morbido” dell’economia in un mese, per poi preoccuparsi, il mese successivo, di una possibile stagflazione. Questa osservazione ha contribuito a mitigare parte del pessimismo che gravava sui mercati.
Powell ha anche ricordato come la stagflazione degli anni ’70 fosse caratterizzata da una pericolosa combinazione di disoccupazione e inflazione a due cifre, accompagnata da una crescita quasi nulla. In contrasto con quel periodo, le condizioni attuali sembrano offrire prospettive più positive per gli investitori nel mercato azionario.
Maggiore divario economico
Nelle prime tre settimane di aprile abbiamo assistito a un aumento del rendimento dei decennali Usa, salito di 50 punti base. Parallelamente, L’S&P 500 ha registrato una flessione del 5,5%, segnale che gli investitori hanno iniziato a preferire le azioni di qualità e le grandi aziende tecnologiche, abbandonando quelle cicliche.
Ma quali sono stati i fattori trainanti di questo cambiamento? Un elemento chiave è stata l’inflazione negli Stati Uniti, che ha superato le aspettative per il terzo mese di fila. Inoltre, la crescita del Pil sembra aver rallentato, attestandosi all’1,6% nel primo trimestre, un dato inferiore alle previsioni del 2,7%, dato questo elaborato dalla Federal Reserve di Atlanta. A questo si è aggiunto un calo nella fiducia dei consumatori che ha lasciato il segno.
Un recente sondaggio della Federal Reserve statunitense sui Senior Loan Officer ha messo in luce un inasprimento delle condizioni del credito e una riduzione della domanda di prestiti da parte delle aziende statunitensi. Questo è solo uno dei tanti segnali che suggeriscono come un contesto di tassi d’interesse elevati e di maggiori rendimenti obbligazionari potrebbe frenare ulteriormente l’attività economica. I consumatori con i redditi più bassi stanno inoltre risentendo maggiormente di questa situazione rispetto a quelli appartenenti a fasce di reddito medio e alto. Pertanto, in un contesto in cui i tassi d’interesse si prevede rimarranno elevati per un periodo prolungato, il divario economico e finanziario tra chi può permettersi di investire e chi no, sia tra i consumatori sia tra le aziende, sembra destinato ad ampliarsi ulteriormente.
La meta, non il viaggio
Nonostante ciò, pur riconoscendo che una crescita economica rallentata e un tasso di inflazione in aumento possano sembrare indicare un trend verso la stagflazione, siamo convinti che entrambi questi indicatori siano in realtà in via di diminuzione.
Dall’analisi dell’ultimo mese emerge un quadro chiaro: sebbene sia possibile che i tassi d’interesse rimangano su livelli elevati per gestire l’ultima fase inflazionistica, riteniamo che solo un aumento considerevole e continuo dei prezzi al consumo potrebbe giustificare ulteriori rialzi dei tassi d’interesse.
Nonostante il clima pessimistico di aprile, i mercati finanziari avevano già iniziato a scommettere su almeno una riduzione dei tassi d’interesse entro la fine dell’anno. Dopo aver preso in considerazione alcuni dati economici e occupazionali meno incoraggianti, i mercati si stanno ora orientando verso l’ipotesi di due possibili tagli. Come abbiamo già evidenziato, l’obiettivo finale (la meta), rappresenta un fattore decisivo nello stabilire la propensione al rischio, più del percorso che conduce al suo conseguimento.
Una crescita del Pil reale, unita a un tasso di inflazione costante, ci proietta verso un panorama di crescita nominale sostenuta. Se a questo scenario aggiungiamo la previsione di un lieve calo dei tassi d’interesse, diventa relativamente semplice comprendere l’origine dell’ottimismo che pervade i mercati azionari.
Le preoccupazioni legate alla stagflazione potrebbero aver spinto alcuni investitori a vendere le proprie posizioni azionarie nel mese di aprile. Riteniamo tuttavia più verosimile che il mercato avesse semplicemente bisogno di una pausa, soprattutto considerando la significativa riduzione dei rendimenti obbligazionari di 120 punti base negli ultimi due mesi del 2023, e il rally quasi del 30% delle azioni statunitensi a partire dalla fine di ottobre. In questo contesto, vediamo pause di mercato come questa non come segnali di allarme, ma come opportunità per incrementare l’esposizione agli investimenti azionari, sfruttando i momenti di calma per posizionarsi meglio in vista della ripresa.
Allargare lo sguardo sui risultati aziendali
Oltre ai dati macroeconomici, gli investitori si trovano di fronte a un’ulteriore sfida nel valutare gli investimenti: le valutazioni di mercato. Questa sfida si manifesta soprattutto nel timore verso le azioni delle aziende growth ad elevata capitalizzazione, in particolare nel settore tecnologico e in quelli ad esso correlati, che spesso appaiono troppo care.
Esplorando aree del mercato al di fuori di questi settori, emergono valutazioni decisamente più interessanti. Se mettiamo da parte i momenti di flessione dei mercati azionari come quello osservato ad aprile, notiamo che nel corso dell’anno gli investitori hanno iniziato a diversificare, orientandosi verso azioni cicliche, value, small e mid cap, sia negli Stati Uniti sia a livello internazionale.
I fondamentali delle aziende si stanno inoltre rafforzando. All’avvio dell’ultima stagione degli utili, avevamo osservato i primi indizi di una performance finanziaria più solida. Ora, avendo a disposizione oltre l’80% dei risultati trimestrali dei titoli che compongono l’indice azionario S&P 500, questi segnali si sono fatti ancora più evidenti.
Secondo quanto riportato da FactSet, il numero di aziende che hanno annunciato utili superiori alle attese, così come l’entità della sovraperformance rispetto alle stime, supera la media degli ultimi dieci anni. Inoltre, otto settori su undici hanno registrato una crescita degli utili su base annua.
Queste sorprese in positivo possono essere in parte attribuite alla prudenza con cui i manager aziendali avevano fornito le proprie previsioni. Ciò nonostante, questo aspetto si aggiunge ai motivi per cui riteniamo che i prezzi attuali nel mercato azionario potrebbero non riflettere appieno il reale potenziale di ritorno in un contesto di elevata crescita nominale.
Oltre le large cap
Il miglioramento dei fondamentali delle aziende è indubbiamente un segnale positivo. È importante però sottolineare che stiamo analizzando l’indice azionario S&P 500, che include alcune tra le più grandi società a livello mondiale. Queste aziende si distinguono per i loro bilanci robusti, una leva finanziaria contenuta e un accesso al capitale relativamente semplice, il che le rende in larga misura meno dipendenti dalle fluttuazioni dei tassi di interesse.
Questo ci porta a riflettere nuovamente sulla disparità tra chi può permettersi di navigare con facilità in questi mari finanziari e chi, invece, si trova in acque più turbolente.
La differenza nell’esposizione ai tassi di interesse e al costo del capitale emerge come fattore chiave nel comprendere perché, negli ultimi 12 mesi, l’indice azionario Russell 2000 abbia registrato performance inferiori di otto punti percentuali rispetto all’indice Russell 1000. Questo si aggiunge al fatto che l’indice di ottimismo delle imprese a bassa capitalizzazione, secondo la National Federation of Independent Business, ha toccato il punto più basso degli ultimi 11 anni, nonostante l’S&P 500 si trovi vicino ai propri massimi storici.
Se ci stessimo avvicinando a un periodo di stagflazione, queste piccole realtà aziendali fungerebbero da campanello d’allarme, preannunciando potenziali difficoltà in arrivo anche per le aziende di dimensioni medie e grandi. Riteniamo però sia più verosimile aspettarsi che una diminuzione dell’inflazione e dei tassi di interesse possa portare sollievo a molti di questi titoli small cap. Questo aiuterebbe a rafforzare ulteriormente i fondamentali del mercato e ad allineare i dati macroeconomici con le performance dei titoli ad elevata capitalizzazione.
Uno sguardo attento
In definitiva, mentre i tassi d’interesse si mantengono sui livelli attuali, continueremo a monitorare con attenzione la situazione dei consumatori e delle aziende che si trovano in posizioni più precarie, scongiurando al contempo che la crescita del Pil reale degli Usa subisca ulteriori rallentamenti rispetto a quanto già osservato nel primo trimestre.
Nonostante ciò, non intravediamo segnali di “stagflazione” all’orizzonte, e questa convinzione rafforza ulteriormente la nostra posizione ottimistica sulle prospettive del mercato azionario.