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Alla fine del 2020 ho sostenuto che “bisogna confidare in tassi di sconto bassi” per pensare che gli asset rischiosi, tra cui le azioni, possano continuare a conseguire buoni risultati nel 2021. Se da una parte la ripresa dell’economia e degli utili dagli effetti del Covid-19 è stata e continua ad essere più poderosa del previsto, consentendo alle imprese di crescere internamente e portarsi su multipli elevati, dall’altra l’aumento dei costi del capitale dai livelli rasoterra, come osservato soprattutto nelle ultime settimane, è un rischio non da poco.

In particolare, la forte correzione dei mercati dei tassi sovrani nelle ultime settimane sembra rispecchiare i crescenti timori di un “errore a livello di scelte politiche”, in quanto i rendimenti obbligazionari reali stanno aumentando in condizioni apparentemente analoghe a quelle registrate durante il taper tantrum del 2013 o a fine 2018, quando la Fed di Powell sottolineava che i tassi erano “ben lontani dal livello neutrale”.  Il tratto a breve delle curve dei tassi incorpora ora un primo rialzo dei tassi d’interesse ad opera della Fed (e della Bank of England) già nel 2023, anticipandolo di un intero anno o più, e le curve obbligazionarie hanno registrato un irripidimento ribassista in quanto la volatilità dei tassi è fortemente salita, riportandosi sui livelli dello scorso marzo. Quindi, è ora di prendere le distanze dall’idea di rendimenti obbligazionari bassi, e quali sono le ripercussioni per chi investe in asset rischiosi?

La risposta è: dipende. Dipende dall’interazione di tre forze: i fattori che spingono al rialzo i rendimenti obbligazionari, la risposta dei legislatori (in particolare delle banche centrali) e la capacità o meno dei flussi di cassa azionari e degli utili di crescere al ritmo serrato delle attuali previsioni.

Scomporre il rendimento obbligazionario

I rendimenti obbligazionari possono essere scomposti in aspettative sull’inflazione (ossia i tassi di pareggio) e rendimenti reali (la componente residua). Se da un lato un aumento moderato dei rendimenti obbligazionari nominali tende ad essere associato all’accelerazione della crescita economica (e dunque giova alle azioni perché imprime slancio agli utili o ai flussi di cassa attesi), dall’altro è spesso ciò che accade in profondità a contare di più, ossia se sono i rendimenti reali e/o i tassi di pareggio a spingere al rialzo i rendimenti.

Per gran parte dell’arco temporale da marzo 2020 a febbraio di quest’anno, i rendimenti obbligazionari sono stati spinti al rialzo dai movimenti dell’inflazione di pareggio, mentre i rendimenti reali sono piombati su nuovi minimi post-2003.  Questa combinazione ha rappresentato un'”oasi felice” per i mercati azionari, e in particolare per i titoli con orientamento growth e duration più lunga: i loro flussi di cassa attesi sono stati sospinti dal miglioramento delle aspettative per la crescita e l’inflazione catturato dai tassi di pareggio e sono stati scontati a tassi tra i più vantaggiosi della storia. Negli ultimi tre anni e cinque anni, per ogni aumento di una deviazione standard dell’inflazione di pareggio, corrispondente alla variazione dei tassi reali, i rendimenti dell’S&P 500 sono aumentati di 0,6-0,7 deviazioni standard. Al contempo, tra inizio novembre 2020 e metà febbraio i rendimenti reali hanno ceduto circa la metà dell’aumento del costo del capitale implicito nella risalita dei tassi di pareggio.

Nelle ultime settimane l’ordine di battaglia è mutato e i rendimenti reali hanno guidato il rialzo, mentre i tassi di pareggio sono rimasti fermi. Ciò giova ai titoli value ma è più problematico per le azioni growth, che hanno enormemente beneficiato sia dell’aumento dei tassi di pareggio che della discesa dei rendimenti reali. La risalita dei tassi di pareggio incide sulle ponderazioni, sulla ciclicità e sulle performance relative dei titoli tecnologici. Lo stesso dicasi per l’irripidimento delle curve, in misura variabile.

I rendimenti reali possono aumentare per motivi molto diversi tra loro

Le aspettative inflazionistiche hanno già percorso molta strada insieme al petrolio e ad altri indicatori delle pressioni sui costi, pertanto ogni eventuale aumento dei rendimenti nominali dovrà essere verosimilmente dettato dalla risalita dei tassi reali dai minimi post-2003. Ed è qui che le cose si complicano, perché le variazioni dei rendimenti reali possono riflettere un’infinità di fattori, comprese le aspettative per la crescita e le politiche della Fed. Non a caso, nella storia recente sono salite per ragioni molto diverse fra loro.

Ad esempio, i rialzi dei rendimenti reali durante il “malumore da tapering” del 2013 e nel quarto trimestre 2018 sono stati altamente destabilizzanti per i mercati del rischio, che hanno giudicato sbagliate le mosse della Fed. Di contro, gli aumenti dei rendimenti reali coincisi con i periodi di riforma fiscale a firma Trump/reflazionistici del 2016 e di fine 2017 sono stati ricondotti al miglioramento delle prospettive per la crescita e hanno pertanto innescato energici rialzi nei mercati degli asset rischiosi. Tutto considerato, con il graduale ritorno alla normalità – sostenuto dagli imponenti stimoli aggiuntivi e dalle vaccinazioni – i rendimenti reali potrebbero facilmente aumentare in un contesto reflazionistico e propenso al rischio: le nostre stime per la crescita negli Stati Uniti si collocano ora sulla fascia alta del consenso sia per quest’anno che per il prossimo. Anche le nostre previsioni per il Giappone sono ottimistiche, e abbiamo corretto al rialzo anche le stime sulla crescita europea nel 2021.

Banche centrali e flussi di cassa

Molto, ovviamente, dipenderà dalla Fed (e dalle altre banche centrali), sia in termini della capacità di riancorare la curva dei rendimenti che di guardare oltre quello che sarà un brusco aumento dell’inflazione, legato alla normalizzazione dell’economia e al rimbalzo pronunciato della crescita nella seconda parte dell’anno. Finché le condizioni finanziarie più ampie rimarranno straordinariamente accomodanti malgrado le turbolenze nei mercati obbligazionari e gli spread creditizi resteranno stabili, non è detto che la Fed avvertirà l’esigenza di intervenire con urgenza. Parimenti, la finalità stessa dell’obiettivo medio flessibile d’inflazione è di consentire all’economia di “riscaldarsi”, il che è incompatibile con il fatto che i mercati inglobino nei prezzi un inasprimento prematuro delle politiche monetarie e con rendimenti obbligazionari a lungo termine ad un soffio dalla neutralità stimata dalla Fed.

L’ultima tessera del puzzle sono quindi gli utili, o i flussi di cassa. La stagione degli utili del quarto trimestre è stata sorprendentemente solida in quasi tutte le regioni, e le nostre aspettative per il 2021 e il 2022 sono leggermente più costruttive delle attuali stime di consenso ottimistiche. Di fatto, la crescita degli utili è sufficientemente forte da garantire rendimenti totali soddisfacenti per le azioni, persino nell’eventualità di un qualche arretramento, mentre lo scenario di una fase leggermente ribassista per i multipli prezzo/utili è già inglobata nei prezzi nell’arco dei prossimi due anni. Il punto è quanto in profondità si spingerà questo mercato ribassista. Nei portafogli multi-asset di CTI abbiamo puntato a concentrare le nostre allocazioni di rischio nei mercati azionari con utili che generano una crescita “intelligente”, come l’Asia emergente e il Giappone, due regioni con un’elevata esposizione operativa al miglioramento del quadro globale. A queste posizioni abbiniamo titoli USA di maggiore qualità e un mix di obbligazioni societarie, mentre per ora restiamo cauti sui titoli di Stato core.

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