Emissioni negli Stati Uniti, in Europa e in Cina: chi è sulla strada giusta?

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COP26, la conferenza delle Nazioni Unite a Glasgow, si è conclusa per molti con la sensazione di un nulla di fatto. Tre economie producono più della metà delle emissioni di gas a effetto serra. Esaminiamo le lacune.

L’obiettivo di un aumento entro 1,5 °C resta lontano

L’obiettivo dichiarato della COP26 era quello di accelerare il ritmo della riduzione delle emissioni di CO2 al fine di contenere il riscaldamento globale in un intervallo compreso tra 1,5 °C e 2 °C, nel rispetto del principio di “sussidiarietà”, secondo il quale ogni paese si organizza come vuole e stabilisce il proprio Contributo Determinato a livello Nazionale (NDC). Secondo il Climate Action Tracker, gli impegni dovrebbero consentire al mondo di limitare il riscaldamento a 2,4 °C (rispetto ai 2,7 °C previsti prima della COP). Per raggiungere l’obiettivo di 1,5 °C, le emissioni nette globali di CO2 devono essere ridotte del 45% entro il 2030rispetto ai livelli del 2010, per poi continuare a ridursi fino allo zero netto entro il 2050. Tuttavia, anche se raggiungessimo gli ultimi NDC, nel 2030 avremmo comunque un livello di emissioni globali di gas a effetto serra ancora più alto rispetto a quello del 2010!

Siamo ben consapevoli di quali sono gli attori che giocano un ruolo chiave in questo contesto. Insieme, gli Stati Uniti e l’Europa contribuiscono per un quarto alle emissioni globali (rispettivamente 15% e 10%), mentre la Cina ne produce poco più di un quarto (27%). Queste tre economie da sole emettono ora più della metà di tutte le emissioni di CO2.

L’ulteriore sforzo richiesto ai paesi sviluppati

Pur partendo da livelli di emissioni molto diversi, l’Europa e gli Stati Uniti hanno obiettivi simili: raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Per raggiungere questo traguardo, gli Stati Uniti hanno fissato un obiettivo intermedio per il 2030 di una riduzione del 50-52% delle emissioni rispetto ai livelli del 2005, mentre l’Europa prevede di ridurre le emissioni del 55% rispetto ai livelli del 1990. Si tratta di obiettivi ambiziosi, ma mantenere la recente tendenza alla riduzione dell’intensità di carbonio (emissioni di CO2 per unità di PIL) non sarà sufficiente! Nel 2050, senza una riduzione più pronunciata dell’intensità di carbonio, le emissioni in entrambe le regioni sarebbero ben al di sopra dell’obiettivo di neutralità carbonica (Figura 1).

 

 

Il percorso per la Cina

L’ambizione della Cina è di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060. Il suo obiettivo per il 2030 è più modesto: prevede solo di ridurre la propria intensità di carbonio del 65% rispetto al 2005. Dato il costante sviluppo economico della Cina, le sue emissioni continuerebbero quindi ad aumentare, raggiungendo il picco appena prima del 2030. Lo sforzo richiesto per raggiungere questi obiettivi è tuttavia considerevole. Rispetto al tasso di riduzione dell’intensità di carbonio osservato negli Stati Uniti a partire dal 1996 (quando l’intensità statunitense era paragonabile a quella della Cina di oggi) o a quello dell’Unione Europea, che ha iniziato ancora prima, la riduzione dell’intensità annunciata dalla Cina appare comunque ambiziosa (Figura 2).

 

 

E quel divario tra “target” e “traiettoria”?

I grafici delle emissioni mostrano sia una linea retta “target” che va dal punto in cui i paesi si trovano oggi ai loro obiettivi di zero netto, sia una “traiettoria” lineare basata sui miglioramenti delle emissioni effettivamente ottenuti nei dieci anni precedenti al Covid-19.

E il divario? Supponendo che si riesca effettivamente a raggiungere gli obiettivi, quel divario crescente suggerisce l’entità del problema che i mercati finanziari devono contribuire ad affrontare. Forse è per questo che “Impatto” è una parola tanto in voga nell’attuale vocabolario degli investimenti.