Un difficile cambiamento di mentalità

-

L’intervento d’urgenza della Banca d’Inghilterra per frenare l’impennata dei tassi d’interesse in seguito agli annunci del Governo, l’aumento dei tassi inferiore al previsto da parte della Reserve Bank of Australia e i dati macroeconomici USA sotto le aspettative, con una diminuzione dei posti di lavoro vacanti ad agosto: questo il mix che ha provocato un brusco rialzo sui mercati azionari all’inizio della scorsa settimana. Sebbene i mercati avessero raggiunto dei livelli di pessimismo estremo, che favoriscono i rimbalzi tecnici, questa raffica di notizie ha soprattutto riacceso la speranza cui gli investitori cercano di aggrapparsi: un dietrofront delle banche centrali, in altre parole, che la fine delle politiche di stretta monetaria sia vicina. I mercati hanno rapidamente anticipato un taglio dei tassi nel primo semestre del 2023.

Questa speranza, ancora una volta, si rivela esagerata ed è stata velocemente raggelata. Da un lato, i dati macroeconomici, e in particolare il rapporto sull’occupazione statunitense di settembre, sono molto solidi. Ma vanno sottolineati anche, e soprattutto, i discorsi dei banchieri centrali, in particolare americani, che ancora una volta hanno veicolato messaggi molto aggressivi. Loretta Mester e Mary Daly, rispettivamente governatore della Fed di Cleveland e della Fed di San Francisco, hanno indicato di non prevedere alcun taglio dei tassi di riferimento nel 2023. Anche se non hanno detto nulla di particolarmente nuovo, è bastato a fermare il rally del mercato perché gli investitori faticano ad ammettere che le banche centrali non offrono più il sostegno fermo degli ultimi anni.

Naturalmente, aleggiano anche timori a breve termine. Finché le banche centrali terranno il piede sull’acceleratore della stretta monetaria, le prospettive per i mercati degli asset rischiosi non potranno certo essere ottimistiche, dato – soprattutto – che cresce il rischio di una forte recessione generata dalla politica monetaria. Si evidenzia così un cambiamento di paradigma che gli investitori fanno ancora fatica ad accettare. Va detto che per oltre 10 anni – a parte una pausa tra il 2017 e il 2018 – l’abbondante liquidità e i tassi di interesse molto bassi hanno fatto crescere i prezzi degli asset. In altre parole, i mercati azionari sono cresciuti alimentati, in particolare, dall’espansione dei multipli di valutazione, ben oltre il solo incremento degli utili. Tra il 2010 e il 2021, ad esempio, è raddoppiato il rapporto prezzo/utili del principale indice di mercato statunitense, l’S&P 500. Un fenomeno questo, che in un futuro contesto di tassi d’interesse nominali significativamente più alti, tassi reali positivi e riduzione progressiva della massa monetaria, sarà difficilmente ripetibile.

Al di là di una situazione dolorosa a breve termine, che potrebbe accentuarsi nei prossimi mesi,questo cambiamento di contesto è davvero negativo? Non proprio per coloro che investono nei fondamentali. Vedere i mercati muoversi in linea con le condizioni economiche e le dinamiche aziendali, e meno sotto la spinta dei sussidi monetari, costituisce un ambito di investimento molto più sano. Limiterà inoltre gli eccessi di valutazione che favoriscono movimenti esagerati al rialzo e al ribasso, nonché frustranti delusioni. Infine, ripristinerà l’attrattiva degli asset obbligazionari e, di rimbalzo, la diversificazione delle asset class all’interno dei portafogli moderatamente rischiosi, che da tempo soffrono della mancanza di driver di rendimento alternativi alle azioni. In sintesi, anche se a breve termine il rimedio può lasciare l’amaro in bocca il gioco vale la candela.