In attesa dello zero

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Sta lentamente volgendo al termine la serie di rialzi dei tassi decisi dalla Federal Reserve (Fed) statunitense.  Anche a essere pessimisti, sono probabilmente già andati in porto due terzi almeno dell’aumento complessivo. Partendo, infatti, da un tasso fissato tra lo 0 e lo 0,25% nel marzo 2022, la Fed ha innalzato il suo tasso di riferimento fino a toccare il livello attuale, del 3,75-4%. Oggi, il mercato prevede il raggiungimento del picco massimo per i tassi di riferimento nel primo trimestre del 2023, a poco più del 5% negli Stati Uniti. Anche se sbagliasse e se i tassi salissero al di sopra di questa soglia, ad esempio al 5,5% o addirittura al 6% – ma gli ultimi dati sull’inflazione non depongono a favore di una simile tesi – rimarrebbero ancora 150-200 punti base da aggiungere ai 375 già acquisiti. Si tratta, nella peggiore delle ipotesi, dell’ultimo terzo del totale. A meno che, ovviamente, non si verifichi uno scenario estremo con un’inflazione di fondo superiore al 6%, ormai altamente improbabile.

La principale preoccupazione del mercato non si concentra più tanto sui futuri rialzi dei tassi, quanto sull’effetto cumulativo di quelli passati sull’economia nel medio termine e, in particolare, sull’inevitabile rallentamento della stessa per contenere l’inflazione. A tal proposito, gli investitori prevedono ora una crescita quasi nulla nel 2023 negli Stati Uniti e addirittura leggermente negativa nell’Eurozona. Un orizzonte di “crescita zero” che sarebbe, in realtà, il male minore in quanto non si tratterebbe di un collasso. Per giunta, la Fed smetterebbe di alzare i tassi nel secondo trimestre o li abbasserebbe, addirittura, alla fine del 2023 se l’inflazione seguisse la traiettoria ribassista prevista.

Ma quanto è probabile questo scenario, che sarebbe il male minore? L’esperienza insegna che le previsioni di mercato a medio termine non valgono nulla. Che si tratti di inflazione, tassi o crescita, le aspettative del mercato a un anno si rivelano spesso estremamente lontane dalla realtà. Basti ricordare le previsioni di un’inflazione moderata elaborate dalla Fed nel 2021, o le sue previsioni di crescita del 4% per il 2022, mentre il consensus prevede ora una crescita inferiore al 2%.

La crescita a fine 2023 sarà quindi probabilmente molto superiore o molto inferiore allo zero previsto. Quali fattori potrebbero far pendere l’ago della bilancia?

Sul fronte della crescita, il probabile calo dell’inflazione statunitense, unito a un aumento significativo ma tollerabile dei salari, indurrebbe dei consumi resilienti.

Sul fronte negativo, il crollo dei prezzi delle case, i lievi segnali di un’occupazione ormai col fiato corto, le conseguenze incontrollabili della guerra in Ucraina e un’inflazione che si confermerebbe alta potrebbero innescare una vera e propria recessione, dalla quale non si potrebbe uscire rapidamente perché bisognerebbe attendere una completa inversione di marcia nella politica monetaria. E questo in un contesto in cui la Cina, alle prese con una bolla immobiliare che si sta sgonfiando, farebbe ben poco per sostenere la dinamica globale, a differenza del ruolo che ha svolto negli ultimi due decenni.

È impossibile decidere oggi quale strada intraprendere ma, in ogni caso, come ci ricorda l’attuale COP 27, un altro “zero” finirà per alterare l’equilibrio nel lungo termine: la necessaria decarbonizzazione delle economie, a partire da ora e per molto tempo. L’obiettivo è quello di un “orizzonte a zero emissioni di carbonio” entro pochi decenni. Finora, qualsiasi taglio delle emissioni di CO2 è stato correlato con una riduzione della crescita. Perché questa volta le cose vadano diversamente dobbiamo inventare un nuovo modello. È il vantaggio del doppio zero, nel breve e nel lungo termine: ci costringe a reinventarci, cosa in cui l’umanità eccelle, come il mercato, che è una delle sue invenzioni più efficienti. Lo zero che ci attende non è il nulla, è il pieno di qualcosa di diverso.