I maggiori rischi di default su PMI europee e consumatori USA

Federico Valesi, CFA, Head of Credit di Quaestio SGR -

La stretta monetaria delle banche centrali arriverà a manifestarsi con un aumento delle insolvenze sia da parte dei consumatori che da parte delle aziende. Lato consumatori, in Italia siamo esposti ad un rischio contenuto, in quanto nel nostro Paese il livello di indebitamento è limitato. Il problema è più evidente al di là dell’Atlantico – ed in misura minore anche nel Regno Unito – laddove il ricorso alla leva è molto più capillare. Pensiamo, ad esempio, alla massiccia diffusione delle carte di pagamento revolving che poggiano sul modello “buy now pay later” e che portano con sé tassi d’interesse di per sé alti, resi ancora più acuti dal contesto di elevata inflazione (in alcuni casi ormai si sfiora il 20%). Il tutto, in un contesto in cui il mercato del lavoro a stelle e strisce è ancora in salute, ma ha di recente mostrato i primi segni di rallentamento. Un ipotetico rischio? Se agli attuali alti livelli d’inflazione si combinasse un rialzo deciso del tasso di disoccupazione, allora le dinamiche negli Stati Uniti potrebbero diventare esplosive.

In alcuni mercati inoltre, l’aumento del costo del denaro ha avuto un grande impatto sui mutui, contribuendo ad innalzare il rischio di insolvenze. Anche in questo caso, l’Italia è meno esposta, così come gli Stati Uniti, dal momento che tanto il nostro mercato dei mutui quanto quello statunitense è prevalentemente a tasso fisso, al contrario invece di quanto sta accadendo in quei Paesi laddove vi è una marcata preferenza per i mutui a tasso variabile. Cosa che, ad esempio, accade in Svezia e nel Regno Unito, in questa fase decisamente sotto pressione. Altro esempio è quello tedesco, laddove la maggior parte della popolazione non è proprietaria di immobili ma vive in affitto. E la maggioranza degli affitti è stipulata con contratti a tassi variabili, cosa che porterà a fronteggiare canoni più elevati erodendo, di conseguenza, il potere d’acquisto dei consumatori. Se dunque il Vecchio Continente, nel complesso, non sembra soffrire quanto gli Stati Uniti del rischio di insolvenza lato consumatori, non vanno pur sempre tralasciate le vulnerabilità proprie di qualche singolo Paese, anche a fronte di una generalizzata riduzione del tasso medio di indebitamento.

Sul fronte delle insolvenze aziendali il punto di partenza è chiaro: veniamo da anni in cui il costo del denaro era a zero e, di conseguenza, da anni con tassi di insolvenze irrisori. Ed è per questo che è del tutto verosimile aspettarsi tassi di default in crescita. Più a rischio, a nostro avviso, saranno innanzitutto quelle aziende che hanno accumulato debito a tasso variabile, cosa che avviene soprattutto nelle PMI. A peggiorare l’ipotetico scenario anche la scarsa flessibilità funzionale propria delle PMI stese. Lato settori, inoltre, l’attenzione va rivolta sempre alle small cap che operano nei settori ciclici come, ad esempio automotive e chimica. Al lato opposto, in condizioni migliori per risentire meno dell’elevato livello di inflazione, ci sono le aziende più grandi – con debito investment grade – e quelle attive nel segmento delle infrastrutture – laddove, tipicamente, ci sono contratti di debito a 20/30 anni indicizzati all’inflazione.

Nel complesso, dunque, guardando al mercato obbligazionario globale, la prima riflessione riguarda gli afflussi. Nel senso che un generalizzato ritorno dei rendimenti sta favorendo una rinnovata allocazione verso il comparto. Dal nostro punto di vista, un investimento nei corporate è da preferire rispetto ai governativi, in quanto i primi offrono uno spread maggiore. Inoltre, l’investment grade ha il vantaggio – non trascurabile – di risentire meno degli impatti dei default (al netto del consueto fenomeno del downgrade dei fallen angel), mentre sono gli high yield in questo momento a offrire rendimenti più interessanti. Alla fine, secondo noi, è sempre il carry il motore della performance e, nel medio periodo, il carry medio dell’High Yield si attesta al 7%, tre punti percentuale in più rispetto alla media dell’investment grade.