Volatilità: un gioco che si basa sulla fiducia

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Anche nel 2019, a dispetto dell’aumento del rischio geopolitico (tra Brexit, guerre commerciali, Hong Kong, Iran e America Latina), non si è verificato un sostenuto incremento della volatilità. Questi eventi non sembrano più spaventare il mercato: gli investitori si stanno lentamente abituando ad una presenza costante di tali rischi e reagiscono in modo meno emotivo. Riteniamo che il rischio maggiore provenga dalle banche centrali e dal carry trade esplicito e implicito a cui hanno dato impulso. Le banche centrali sono state, e rimangono, il principale motore della volatilità cross-asset: abbiamo beneficiato di un loro “free put” per diversi anni e oggi corriamo il rischio che gli investitori si sentano gratificati… Riusciranno quindi a salvare di nuovo i mercati finanziari?

Il trading sulla volatilità fornisce un’esposizione all’insicurezza umana in relazione ad un futuro sconosciuto: una posizione short esprime fiducia nell’attuale contesto di mercato, mentre una posizione long implica il timore di un cambiamento in arrivo. Dal “whatever it takes” di Draghi del luglio 2012, il livello medio annuo del VIX è stato compreso tra 11,1 e 17,9, mentre la media annuale dall’inizio dei record nel 1990 è di 19,3. Queste cifre riflettono chiaramente la convinzione degli investitori che le banche centrali siano in grado di difendere lo status quo. Se guardiamo alla volatilità della volatilità, che rappresenta l’incertezza di passare dallo status quo ad un periodo di cambiamento, notiamo un quadro molto diverso. La volatilità VIX è aumentata costantemente dal 2012, raggiungendo i livelli più elevati nell’agosto 2015 e nel febbraio 2018, rispetto a quelli della crisi finanziaria.

Gli investitori sono compiaciuti?

L’hedging è caduto in disgrazia, ma non riteniamo che gli investitori soffrano ancora di un vero e proprio “stress da coperture”. Sebbene la volatilità a lungo termine abbia procurato dolori per un lungo periodo di tempo, la ripida struttura a termine (short vs long), la ricca volatilità obliqua (strike al ribasso vs. al rialzo) e la costosa volatilità della volatilità (VVIX) nell’azionario indicano che i trader della volatilità non sono ancora soddisfatti. Il trading long sulla volatilità ha recentemente affrontato due sfide. Inizialmente, le fasi di alta volatilità sono state molto rare dopo la crisi finanziaria; in seguito, i picchi sono stati molto brevi. Dal luglio 2012, il VIX future ha negoziato un giorno sopra i 30 e 22 giorni sopra i 25. I forti acquisti di asset a prezzo scontato e la rapida inversione delle fasi di volatilità si sono dimostrate fonti di dolore per gli asset di copertura. Gli investitori sembrano aver capito che se non monetizzano subito questi ultimi, la finestra di opportunità svanisce. Questo comportamento ha accelerato ulteriormente il fenomeno. Per muoversi in un ambiente di maggiore volatilità, abbiamo bisogno di un elevato “fattore paura” che sostituisca il “fattore avidità”.

Affamare il mercato per ricercare rendimenti crea affollamento e ne accresce la fragilità

Il principale motore dell’avidità è stata la fame di rendimenti, unita alla bassa volatilità dei mercati finanziari e dei dati macroeconomici. La volatilità di vendita non è altro che una forma alternativa di rendimento – e la bassa volatilità realizzata rende questo “rendimento” molto attraente. Si crea l’illusione che i mercati risultino più sicuri di quanto lo siano realmente, innescando un pericoloso loop di feedback. Una bassa volatilità porta ad una minore volatilità, premiando strategie che scommettono sistematicamente sulla stabilità del mercato in modo da poter puntare ancora di più su questo equilibrio (Risk parity, Var Control, CTA, VIX ETN ecc.). Prima del “Volmageddon” del febbraio 2018, l’S&P 500 veniva dal periodo più lungo della sua storia senza un calo del 5% (cioè 405 giorni di contrattazioni). Più a lungo durava questa fase, più gli investitori acquisivano fiducia e le posizioni si affollavano. L’opinione unanime secondo cui le banche centrali hanno sconfitto la volatilità è risultata errata: l’hanno “domata” per qualche tempo, ma così facendo hanno aumentato i rischi di coda e la probabilità di future fragilità di mercato.

La liquidità guida i mercati

Il secondo picco di volatilità del 2018 è stato raggiunto quando il mercato ha iniziato a soffrire per le politiche di normalizzazione della Fed. Anche se inizialmente Powell si è rifiutato di proteggere i mercati, il dolore causato dall’aumento dei tassi d’interesse e dal crescente stress dei mercati nel quarto trimestre è stato troppo forte e alla fine ha spinto la Fed ad un’inversione di tendenza in gennaio. Una volta che le banche centrali sono tornate in modalità “easing”, gli spread di credito si sono ridotti e le azioni rialzate, nonostante le stime degli utili aziendali da parte degli analisti siano diminuite quasi ogni settimana nell’anno. Questa anomalia assomiglia molto alla precedente fase di QE (2012-2016).

A differenza dell’azionario, i segmenti a basso rating dei mercati del credito cominciano a mostrare alcuni segnali di sofferenza. Un forte monito è dato dal differenziale di performance all’interno del credito high yield, dove la parte più rischiosa ha fortemente sotto-performato i titoli di qualità superiore, nonostante un anno molto positivo per gli asset rischiosi.

La comprensione del ciclo del credito e della sua interdipendenza con l’azione delle banche centrali è fondamentale per il timing del trading sulla volatilità. Non solo perché è stato un indicatore di riferimento per le ultime due recessioni – in cui gli spread high yield hanno iniziato ad allargarsi, mentre gli indici azionari continuavano a raggiungere nuovi massimi – anche perché i cambiamenti del regime di volatilità sono guidati dal ciclo del credito. Quando il credito è facile e i tassi sono bassi, la volatilità rimane contenuta, ma quando il credito si contrae, la volatilità aumenta.

La narrativa delle banche centrali continuerà a distorcere i mercati finanziari

Quest’anno, anche se la volatilità cross-asset sembra molto compressa, i tassi, l’azionario e la volatilità delle materie prime (ma non quella dei cambi) sono stati negoziati più che nel 2018, nonostante le banche centrali abbiano ridotto i tassi 68 volte. Non riteniamo che questa sia una prova del fatto che la capacità delle banche centrali di controllare il rischio stia (ancora) svanendo. Finché gli investitori credono alla narrazione attorno al “central bank put”, questa si auto-avvera. Sebbene non consideriamo l’ultimo programma di acquisto della Fed come un QE4, è parte integrante della promozione di condizioni finanziarie facili e mina la disponibilità della banca centrale a perseguire il “whatever it takes”. Pertanto, siamo convinti che la combinazione data da supporto delle banche centrali, valutazioni elevate nelle asset class tradizionali e fame di rendimento, offra un ambiente ideale per raccogliere un premio di volatilità. Questo non è altro che il compenso dato agli investitori per fornire protezione contro la volatilità inattesa del mercato. Lo spread tra volatilità implicita e realizzata si è deteriorato insieme agli altri indicatori di rendimento, ma fornisce comunque un guadagno discreto e sostenibile, guidato unicamente dall’avversione al rischio degli investitori e dalla loro tendenza a sovrastimare la probabilità di perdite significative.

Tre elementi sono fondamentali per avere successo tramite il carry trade della volatilità. In primo luogo, essere consapevoli della fragilità dei mercati e dei rischi di coda (implementazione). In secondo, misurare e comprendere il posizionamento di strategie implicite ed esplicite di volatilità short (affollamento). Infine, valutare il rischio di cambiamenti di orientamento delle banche centrali e la stabilità del mercato del credito (fiducia).

Gli investitori hanno ancora fede nella versione raccontata dagli istituti centrali e pertanto la volatilità del carry trade continuerà ad aggiungere valore in portafoglio come flusso di reddito non correlato, stabile e redditizio.