Gas, nulla di deciso sul taglio del prezzo

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Dopo il taglio delle accise da parte del governo italiano anche l’Europa ha provato a fare qualcosa, cercando di trovare un accordo per stabilire un tetto al prezzo del gas. Ma finora le trattative non hanno portato risultati. E non c’è troppo da stupirsi.

Il motivo è semplice: una parte del rincaro è imputabile al prezzo che si forma a Chicago, mentre tutto il resto – lo avevamo già sottolineato nell’articolo della scorsa settimana – è prodotto in Olanda, al Title Transfer Facility di Amsterdam.

E qual è il paese che più si è opposto a fissare un tetto al prezzo del gas? Avete indovinato: proprio l’Olanda, preoccupata di non ledere interessi economici nazionali.

Come al solito, si è dovuto osservare che in sede europea non esiste una grande solidarietà e neanche una leadership chiara: la Germania, interessata come e più dell’Italia a porre un limite al caro-gas, non è riuscita a imporsi, nonostante il sostegno di vari paesi.

Una volta tanto sono state le istituzioni italiane a indicare la via possibile: il taglio (provvisorio) delle accise ha abbassato il prezzo della benzina alla pompa, rimarginando l’allarme rosso per cittadini e imprese. Il decreto è persino stato in grado di invertire un fenomeno storico: ora sono gli svizzeri a sconfinare in Italia per rifornirsi – un’eventualità che solo pochi giorni fa sarebbe stata definita fantascientifica.

Ancora una volta è evidente quanto sia corretta la teoria di Laffer, secondo cui la tassazione, quando supera un certo livello, distrugge reddito e diminuisce il gettito fiscale. Ne è la dimostrazione la tassa introdotta da Monti sui porti, che a suo tempo ha devastato un settore, influendo negativamente anche sulle entrate. Mentre, d’altra parte, l’Irlanda ha scelto la detassazione per uscire dalla crisi. E lo ha fatto in scioltezza.

La chimera del gas liquefatto

Se il costo della benzina è tornato a livelli accettabili (per il taglio delle accise, ma anche per il calo del prezzo del petrolio, dopo il lockdown di Shanghai), la questione-gas è dunque più che mai aperta. Anzi: il quadro peggiora dopo la richiesta, avanzata da Mosca, di saldare i conti in rubli – una proposta che gli europei hanno rinviato al mittente.

Difficile intravedere se questo problema porterà una rottura – complicato anche comprenderne i motivi, dato che la mossa russa non ha apparentemente impatti di tipo monetario, a parte un temporaneo rimbalzo del rublo.

Forse il tentativo punta a scongiurare nuove sanzioni sul lato Swift, o riattivare le attività bancarie sotto embargo.

Non è facile, comunque, prevedere se la nuova querelle troverà risoluzione. Certo è che una rottura definitiva porterebbe alla luce il problema della sostituzione del gas russo (che peraltro sta pompando regolarmente in Europa occidentale) con rifornimenti da altri paesi. Un’operazione che ha del proibitivo.

Prima di tutto perché le alternative – Azerbaijan, Qatar, Algeria, Turchia, Arabia Saudita – non sono così attraenti considerandone lo Stato di diritto.

E poi perché il possibile acquisto di gas liquefatto dagli Stati Uniti sa molto di presa in giro. Per attivare questo nuovo meccanismo e portarlo a soddisfare il fabbisogno europeo, infatti, non ci vorrebbero mesi, ma anni. Oltre a ciò, il gas a stelle e strisce coprirebbe non più del 10% delle necessità odierne e dovrebbe essere stoccato in apposite piattaforme. Che non sono pronte.
In più, gli Stati Uniti sono autosufficienti in termini di produzione energetica e alle loro aziende e famiglie oggi il gas costa 15 euro/Mwh contro i 100 che si pagano in Europa in questo momento.

Per non parlare della pericolosità dell’operazione: il gas viaggerebbe su navi e basterebbe una scintilla per provocare un disastro.

Quel default impossibile

Tutto questo mentre l’idea dominante del mondo occidentale è portare al limite del default la Russia – impresa quasi impossibile, dato che Mosca incassa fra i 30 e i 40 miliardi al mese per la vendita di gas e petrolio, è leader nell’esportazione di palladio e nichel e ha varie alternative in caso di disimpegno occidentale, oltre che un debito gestibile verso l’estero. Senza trascurare un dato storico: nessun embargo ha mai fatto fallire un paese – né Cuba, né l’Iran, né il Venezuela, eccetera.

Insomma: alla fine il conto non lo pagherebbe il Cremlino, ma l’Europa. E neppure tutta, dato che qualche azienda inizia a fare distinguo e non ne vuole sapere di lasciare il mercato russo.