Volatilità del greggio: non solo geopolitica

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Mescolare economia e politica non produce buoni risultati, e l’OPEC+ intende perseguire tale linea. Il saggio principio, che non trova molto seguito ai giorni nostri, è stato ribadito dal Ministro dell’Energia saudita Principe Abdulaziz bin Salman e dal collega degli Emirati Suhail Al-Mazrouei in occasione del World Government Summit svoltosi a Dubai. Il tema si riferiva alla partnership che pone la Russia all’interno dell’OPEC nella sua nuova versione “allargata”. Espellere la Russia dall’Organizzazione porterebbe peraltro ad un aumento ulteriore dei prezzi del greggio, per cui è meglio “lasciare la politica fuori della porta del palazzo” ha affermato il principe saudita, aggiungendo che, altrimenti, l’OPEC non avrebbe potuto svolgere la sua missione in occasione di crisi del passato. Ha ricordato come la Russia produca circa 10 milioni di barili al giorno, cioè il 10% dell’attuale consumo mondiale, oltre ad una notevole quantità di gas. E’ stato inoltre evidenziato il tema della sicurezza delle infrastrutture saudite, costantemente sotto attacco da parte di missili e droni Houthi provenienti dallo Yemen, finanziati da un “membro OPEC”, non citato direttamente ma con chiaro riferimento all’l’Iran, l’arcinemico del Regno per la supremazia nel Golfo e detentore del controllo sul fatidico stretto di Hormuz. Proprio la posizione di Washington, ritenuta debole nei confronti di Teheran, è una delle ragioni che hanno portato l’OPEC+ a resistere alle pressioni USA per un aumento di produzione, del resto non facilmente realizzabile vista la scarsa “spare capacity” dei membri, con l’eccezione dell’Arabia Saudita.

L’OPEC+ non manca poi di rilevare, fra le cause degli attuali squilibri, gli scarsi investimenti che gran parte dei Paesi hanno effettuato nell’industria petrolifera, per ragioni economiche ma spesso anche politiche e ideologiche.

La “questione Russia” genera volatilità: blocchi, sanzioni, embargo limitano l’export di Mosca, anche se oleodotti e trasporti marittimi sono in parte operativi e flussi verso Occidente sono dirottati alla volta dell’Asia, soprattutto Cina e India (anche con prodotto scontato sia dal Mar Nero che dal Baltico). L’Europa pare destinata a soffrire di più, mentre Washington spinge per un esito positivo dei negoziati sul nucleare con Teheran (che già vende il suo petrolio “over the counter”), bussando perfino alla porta del Venezuela per qualche barile in più.

Un effetto collaterale, ma di non trascurabile portata, della crisi geopolitica, è l’adozione dello yuan cinese in transazioni petrolifere con la Cina e l’India, che potrebbe estendersi ed avviare una fase di declino del dollaro USA quale valuta di riferimento globale, tanto più alla luce dello sviluppo di circuiti finanziari alternativi rispetto a quelli tradizionali dominati da USA e biglietto verde.

La crisi geopolitica ha frattanto messo in ombra temi quali “fine del petrolio” o “picco di domanda”, dimostrando inoltre l’alta inelasticità dei consumi di petrolio anche a fronte di significativi aumenti di prezzo, la limitatezza dei sostituti ed i molti problemi con cui ancora si confrontano le fonti energetiche alternative. Va poi considerato il potenziale aumento di domanda da parte dei Paesi emergenti con il miglioramento dello standard di vita. Considerando solo il potenziale della Cina, il cui consumo pro-capita è attualmente di meno di 4 barili all’anno (rispetto ai 19 negli USA), un aumento pro-capita che raggiungesse anche solo il 50% del livello americano, determinerebbe un maggior consumo di 39 milioni di barili al giorno, cioè il 40% dell’intera domanda per il 2021. Per l’India l’incremento sarebbe di 36 milioni di barili al giorno.

Indipendentemente da questi trend di lungo periodo, le agenzie specializzate e la stessa OPEC+ prevedono, nonostante un possibile rallentamento congiunturale e l’impatto di un’elevata inflazione, una soglia di consumo globale, per il terzo trimestre 2022, di almeno 100 milioni di barili.

In sintesi, mentre “il vecchio non muore” il nuovo stenta a nascere, il concorso di fattori geopolitici e fondamentali sembra destinato a rendere il prezzo del petrolio ancora volatile e relativamente forte, in attesa di una transizione energetica più lenta e costosa (in tutti i sensi, anche sociali) rispetto a quanto previsto nelle visioni utopiche e semplicistiche di molti.