Il Climate Change costerà $23.000 miliardi entro il 2050. Chip e assicurativi i settori più colpiti

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Il clima sta cambiando e si verificano con frequenza sempre maggiore fenomeni meteorologici estremi, come alluvioni o lunghi periodi di siccità. Questi eventi condizionano profondamente l’economia e il benessere dei cittadini, con ricadute dirette anche in ambito finanziario. Infatti, un’economia cresce nel lungo periodo se a crescere è la produttività. Quest’ultima aumenta i redditi, quindi la domanda e l’offerta. Se l’economia cresce, e il suo PIL aumenta, a giovarne sono anche gli asset finanziari, in particolare il mercato azionario. Gli analisti stimano che gli effetti del cambiamento climatico ridurranno tra l’11% e il 14% la produzione economica globale entro il 2050 rispetto ai livelli di crescita senza cambiamenti climatici. Ciò equivale a ben $23.000 miliardi di riduzione della produzione economica globale annua.

Grado di vulnerabilità al cambiamento climatico nel mondo

Ma perché esiste un legame tra cambiamento climatico e prezzi azionari? In primo luogo, lo “stravolgimento” del clima, determina un incremento della volatilità degli eventi atmosferici: diventerà sempre più difficile prevedere il comportamento del clima. Tra i settori che potrebbero essere più influenzati si trova quello alimentare. Agricoltura e allevamento, e tutti i mercati collegati, potrebbero ridurre la produzione: siccità prolungate distruggono raccolti, risorse idriche e tutto si estende all’intera economia e al consumatore finale. L’offerta potrebbe quindi diminuire e di conseguenza i prezzi delle azioni di tale settore potrebbero ridursi. Ad esempio, chi produce i semiconduttori fa un abbondante uso di acqua per pulire i wafer di silicio che vengono installati in ogni dispositivo elettronico. Pochi anni fa, una profonda siccità ha colpito il Taiwan, sede di TSMC (la più grande società di semiconduttori al mondo) e isola che detiene il 92% della capacità produttiva di semiconduttori, costringendola a ridurre in parte la produzione. Un altro settore che potrebbe osservare un corposo aumento dei costi è quello assicurativo. Eventi meteorologici estremi pesano ovviamente molto sui profitti delle compagnie assicurative. In conclusione, per un investitore è quindi fondamentale considerare nelle proprie scelte di investimento i rischi e gli scenari legati al cambiamento del clima. Diversificazione e visione di lungo termine sono essenziali per migliorare i propri investimenti in un mondo che cambia velocemente.

I bear market e la Fed

Per il secondo mese consecutivo l’inflazione negli Stati Uniti ha registrato un rallentamento. Secondo gli ultimi dati forniti dal Bureau of Labor Statistics, l’indice dei prezzi al consumo è sceso in linea con le attese al 6,5% nel mese di dicembre. Un dato in calo rispetto al 7,1% di novembre e ormai lontano dal picco del 9,1% di giugno. Questi segnali positivi dimostrano che un’inflazione causata da un eccesso di domanda, come quella americana, deve e può essere “curata” prima di iniziare un ciclo di ribassi dei tassi di interesse, portando anche l’economia in recessione, se necessario. Dal 1961 al 2021 ci sono stati ben dieci mercati ribassisti; tra questi risulta sicuramente utile analizzare il mercato ribassista degli anni 70’. Durante questi stessi anni infatti, si presentarono alcune somiglianze con la situazione attuale: inflazione elevata, inasprimento della politica monetaria e rischio recessione. Il mercato ribassista del 1969-70 iniziò nel dicembre 1968 e durò per un anno e mezzo, con l’S&P 500 che perse circa il 36% prima di toccare il fondo. La spesa massiccia per la guerra in Vietnam aggravò la bilancia dei pagamenti statunitense e l’inflazione. Nel tentativo di anticipare la lotta a quest’ultima, il Presidente Johnson e il Congresso concordarono un corposo aumento delle tasse e un taglio della spesa di circa $6 miliardi. Misure volte a raffreddare la domanda e calmierare i prezzi. La FED ovviamente intraprese una politica monetaria restrittiva, alzando i tassi di interesse di riferimento, i FED Funds (oggi a 4,25%-4,50%), fino al 9%. Nel grafico si osserva la crescita dell’inflazione e dei FED Funds fino al taglio dei tassi di interesse e la discesa dei prezzi:

Come si nota dalla zona grigia, l’aumento dei tassi di interesse e le difficoltà economiche portarono gli USA in recessione nel dicembre 1969. La recessione durò 11 mesi. La FED tagliò i tassi nel febbraio 1970: i mercati azionari risposero positivamente al pivot e uscirono dal bear market il 26 maggio 1970, iniziando un nuovo rally. Andando più avanti nel tempo invece, verso la fine degli anni ‘70, l’allora presidente della Fed Paul Volker, si prese la responsabilità di aumentare i tassi fino al 20%, mandando in recessione gli Usa per ben due volte: nel 1980 e nel 1981. In conclusione l’inflazione elevata e i tassi in aumento potrebbero far pensare ad un imminente recessione come nei casi appena descritti, tuttavia il mercato del lavoro appare in salute, i salari continuano ad aumentare e le famiglie a spendere. Il tutto mentre la Fed, dopo quattro rialzi consecutivi da 75 punti base nel 2022, ha ritoccato i tassi soltanto di 50 punti, facendo presagire un comportamento più da “colomba” nelle prossime riunioni. Grazie a tale quadro macroeconomico, secondo alcuni analisti la recessione potrebbe essere più lieve del previsto o addirittura potrebbe non manifestarsi.