New year, new thinking: l’agenda climatica deve essere più ambiziosa

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L’inizio di un nuovo anno e di un nuovo decennio dovrebbero essere fonte di ottimismo, ma è difficile scrollarsi di dosso il senso di frustrazione rispetto alle azioni legate alla lotta contro il riscaldamento globale. COP25, il venticinquesimo vertice delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, ha riaffermato l’importanza di ridurre le emissioni di carbonio ma ha fallito nel delineare un nuovo ambizioso programma per raggiungere questo obiettivo.

Nel 2015, COP21 ha portato alla stesura dell’Accordo di Parigi, che ha sottolineato la necessità impellente di ridurre in maniera radicale le emissioni entro il 2030, al fine di contenere l’incremento delle temperature globali sotto la soglia di 1,5 gradi centigradi. Da quel momento in poi, durante ogni COP è stato rinnovato l’impegno per il raggiungimento di questo target. Tuttavia fino ad ora non siamo riusciti a raggiungerlo, fallendo miseramente.

Da un recente report delle Nazioni Unite è emerso che esiste un crescente divario tra gli obiettivi legati alla riduzione delle emissioni di carbonio e le emissioni stesse (https://wedocs.unep.org/bitstream/handle/20.500.11822/30797/EGR2019.pdf?sequence=1&isAllowed=y). Ogni anno assistiamo a un aumento delle emissioni, fattore che rende sempre più difficile raggiungere gli obiettivi per la riduzione delle emissioni fissati per il 2030, oltre al fatto che diventa sempre più arduo difendere il nostro ambiente e sarà sempre più complicato mitigare l’impatto economico del cambiamento climatico.

Dovrebbe diventare prioritario far comprendere ai governi e alle imprese l’urgenza della situazione, soprattutto nei mercati emergenti, nei quali le decisioni prese oggi modelleranno l’intera struttura economica di questi paesi nei decenni a venire. Se queste decisioni non vengono prese tenendo in considerazione la sostenibilità e il basso consumo di carbonio, nel futuro prossimo saremo bloccati in un mondo ad alte emissioni.

Alcune volte, il cambiamento climatico può sembrare un problema estremamente complicato da affrontare. La soluzione, però, potrebbe forse essere riassunta in una solo parola: investimenti. I governi nazionali e le altre entità statali devono comunque fare la propria parte ma solo il settore privato è in grado di allocare la somma di denaro necessaria.

Questo si traduce nella necessità di dare impulso al mercato della finanza sostenibile. L’appetito degli investitori verso i prodotti finanziari green è in crescita – da un sondaggio condotto da HSBC all’inizio di quest’anno è emerso che il 63% dei nostri clienti investitori ha dichiarato che investirà o espanderà la propria presenza nel settore della finanza sostenibile nei prossimi due anni.

Tuttavia il mercato è ancora di dimensioni inferiori alla media, frenato dalla mancanza di progetti in cui vale la pena investire. Per quanto riguarda i green bond, nei primi tre trimestri del 2019 le emissioni si sono attestate a quasi 190 miliardi di dollari (https://www.climatebonds.net/files/reports/cbi_q32019_highlights_final.pdf), con un forte incremento rispetto ai circa 115 miliardi di dollari dello stesso periodo dell’anno precedente. Ma questa è solo una piccola parte dell’ingente quantità di investimenti green necessari entro il 2030 e, peggio ancora, nel 2019 solo il 26% delle emissioni è stato destinato a progetti sui mercati emergenti, ben al di sotto di quanto necessario per garantire una crescita economica sostenibile a lungo termine in quei Paesi.

Cambiamenti mirati possono però fare la differenza. Come prima cosa bisogna incoraggiare una migliore divulgazione dei rischi climatici. Se gli investitori hanno un’idea chiara di quali sono le imprese e settori più esposti all’impatto dell’aumento delle temperature possono prendere decisioni più ragionate su come investire il proprio denaro.

L’ampia adozione di principi di disclosure standardizzati, come quelli pubblicati dalla Task Force sulle informazioni finanziarie relative al clima, farà crescere il numero di progetti che gli investitori ritengono interessanti e contribuirà al secondo cambiamento: incrementare le attività in ambito di finanza green nell’economia reale.

Finora, le emissioni in tema di finanza verde sono state dominate dai governi nazionali e dalle entità finanziarie ma questo trend non può proseguire. È essenziale che i settori ad alto contenuto di carbonio, come la produzione di energia e l’industria manifatturiera pesante, diventino parte del mondo della finanza green. In questi settori, la transizione verso una riduzione delle emissioni presenta moltissimi rischi, ma offrirà al contempo enormi opportunità alle aziende che hanno successo. Sarò cruciale scegliere il giusto tipo di finanziamento al momento giusto.

Ci sono alcuni segnali che indicano che questi settori stanno iniziando ad affrontare la transizione – recentemente abbiamo visto la formazione di organizzazioni industriali, come ad esempio la Responsible Steel, che spingono per una riduzione delle emissioni in specifici settori dell’economia. Più tempo le imprese impiegano ad adattarsi a una mentalità a basse emissioni di carbonio, più è probabile che subiscano un contraccolpo da parte di consumatori e investitori attenti al clima.

Il terzo cambiamento riguarda il rendere le infrastrutture sostenibili un’asset class a sé stante. Diversi studi dimostrano che attualmente esiste un deficit globale di investimenti in infrastrutture che oscilla tra i 40 trilioni e i 70 trilioni di dollari. Semplicemente, non investiamo abbastanza denaro in opere come strade, ferrovie e produzione di energia. È essenziale colmare questo divario in modo sostenibile. Un’asset class separata consentirebbe ai prodotti di diventare più standardizzati, più trasparenti e in linea con il loro reale impatto.

In particolare, le città hanno particolarmente bisogno di infrastrutture e di altri investimenti green, in quanto, se da un lato generano oltre il 70% delle emissioni di carbonio globali (C40 Cities – https://www.c40.org/why_cities), dall’altro la maggior parte di esse non ha accesso diretto ai mercati dei capitali e, quindi, non riesce facilmente a investire denaro per ridurre questo dato.

Ecco perché il quarto cambiamento nella nostra wish list è rappresentato da una maggiore innovazione a livello di prodotti, che offrirà una più ampia gamma di possibilità di investimento per aiutare a trasformare politiche o i prodotti climatici promettenti su piccola scala in soluzioni ad effetto di massa. Molte città, ad esempio, sono state pioniere di progetti che riducono le emissioni di carbonio legate allo smaltimento dei rifiuti o hanno incrementato i finanziamenti per edifici più ecologici. Un progetto che funziona a Shanghai dovrebbe, con qualche ritocco, funzionare a Stoccolma o a San Paolo. Anche lo sviluppo del mercato dei “blue bond” è incoraggiante, dove i rendimenti degli investitori sono legati alla conservazione di specifici ecosistemi.

Il 2020 sarà un anno cruciale per il cambiamento climatico. La COP 26, che si terrà a Glasgow il prossimo novembre, sarà fondamentale per il futuro prossimo e a lungo termine del nostro pianeta. Anche complice il Green New Deal europeo, possiamo solo sperare che possa puntare a risultati più concreti di quelli degli ultimi anni.