FED-eli alla linea

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Il 16 e il 17 marzo si è tenuta la periodica riunione fra i governatori della Federal Reserve. Si tratta di un incontro di cui gli stessi membri del Comitato avrebbero fatto volentieri a meno, dato che è arrivata in un frangente decisivo del quadro pandemico e dei mercati, e tuttavia con ancora molti interrogativi sulle tempistiche di ritorno alla piena funzionalità dell’apparato economico. Il compito della Fed era decisamente impegnativo: rassicurare i mercati sul fatto che non ci saranno passi indietro di politica monetaria nei prossimi due anni, a dispetto di dati economici USA migliorati sensibilmente e di un per­corso di uscita dalla crisi pandemica che ora sembra più chiaro; ad aumentare ulteriormente il quoziente di difficoltà sono stati inoltre i due piani fiscali appro­vati in serie dall’uscente Trump e dal neo-Presidente Biden, per un totale di 2.800 miliardi di USD. Questa ingente massa di danaro, capillarmente distribuita a un’economia già in ripresa sostenuta, aumenta i rischi di surriscaldamento di medio termine. Per dirla con gli economisti, “too much money chasing too few goods” rischia di crea­re un’indesiderata crescita dei prezzi. Proprio questa è stata la conclusione dei mercati negli ultimi mesi, nello spingere al rialzo tassi e attese d’inflazione. La Fed ha scelto di tollerare questo movimento, perché in fondo guidato da un deciso progresso delle pro­spettive economiche. D’altra parte, ha preferito non aggiungere ulteriore benzina sul fuoco, puntando ad essere “credibilmente irresponsabile”, come teoriz­zato dal premio Nobel Krugman in un celebre scritto del 1998 sul ruolo delle Banche Centrali.

Powell ha quindi scelto toni rassicuranti: sulla proro­ga della misura che non conteggia l’esposizione ai Treasury nel calcolo della leva delle banche, attesa dal mercato, ha anticipato che “ci sarà un annuncio nei prossimi giorni”. La misura dovrebbe essere con­fermata, scongiurando vendite forzate su un mercato già squilibrato dall’aumento di offerta da parte del Tesoro. Un’accortezza ha riguardato invece il “dot plot”, ovvero le attese dei governatori sul percorso dei prossimi anni del tasso ufficiale: per la maggior parte dei membri il primo rialzo non ci sarà neanche nel 2023, confermando l’impostazione precedente. È improbabile che sarà così, o almeno questo ritiene il mercato, con la curva forward USA che prezza tre rialzi nel 2023. Per il momento la decisione è stata di prendere tempo, in attesa che il mercato del lavoro migliori, l’economia USA sia meglio attrezzata per di­gerire ulteriori pressioni al rialzo sui tassi, e in attesa di definire eventuali misure (operazione twist?) atte a calmierare gli effetti di dichiarazioni più restrittive. In fondo, questo dovrebbe permettere anche ai mercati di guadagnare tempo e di valutare con la dovuta calma gli effetti delle recenti misure fiscali. L’appun­tamento importante a questo punto è spostato alla nuova riunione di giugno, in cui la Fed potrebbe decidere per un cambio di tono, ove confortata dai dati economici/pandemici: da maggio è quindi probabile che i mercati torneranno a soppesare ogni singola dichiarazione dei governatori e a posizionarsi di conseguenza.